[TFF34] Free Fire, la recensione

Tra il divertente e l'esercizio filmico, Free Fire amplia il conflitto a tutto il film e lo usa per raccontare i suoi personaggi invece che per ammazzarli

Critico e giornalista cinematografico


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Poteva essere una normale scena d’apertura per un film criminale quella che c’è all’inizio di Free Fire: due gruppi di persone si incontrano di notte in una fabbrica abbandonata per scambiarsi soldi e armi. I primi hanno la valigetta con il contante, i secondi il van con le casse di fucili. Non c’è amore reciproco ma gli affari sono affari. Quando tutto degenera per un dettaglio, il nervosismo ha la meglio e si passa subito alle pistole.
A questo punto a rendere questa scena diversa da tutte quelle viste in precedenza è il fatto che non riesca a finire, perchè nessun personaggio vuole morire, anche quelli che sembrano deputati dal film a crepare. Colpiti di striscio, miracolosamente vivi, feriti alle gambe, tenacemente attaccati alla vita nonostante buchi in pancia, tutti tengono duro. Per tutto il film.

Free Fire viene da un regista che con la morte ha un rapporto così disincantato da poterci giocare, rimandarla, negarla o farla esplodere a piacimento al di fuori delle classiche regole del cinema. Già in Killer in Viaggio mostrava due camperisti amorevoli e un po’ sfigati con il tranquillo hobby dell’omicidio. Qui invece sono gli anni ‘70 e i personaggi rappresentano le convenzioni del genere, dal drogato, al boss, dal vanesio con la bocca grossa al professionista navigato fino all’americano metodico. Tutti si scanneranno (letteralmente) in 90 minuti di sparatoria, ricariche, insulti, disperate strategie di sopravvivenza e tentativi di uscirne interi.

Non poteva non avere una striatura di commedia questo film che guarda al pulp anni ‘90, per come si compiace della spremuta di sangue e rielabora i consueti meccanismi di genere, mostrando più di amarli che di prenderli in giro. Però c’è qualcosa di più. Perché in questa riluttanza a morire come dovrebbero ogni personaggio narra qualcosa di sé. Le 11 tenacie differenti con cui cercano di rimanere in vita portano avanti una piccola parabola personale di riscatto o tradimento, di meschinità o bontà, di infamia o fedeltà. Invece che usare il conflitto armato per far uscire di scena certi personaggi, per far primeggiare alcuni su altri o per regolare dei conti che tirano le file della trama, Wheatley (regista e sceneggiatore, con Amy Jump, del film) lo usa per raccontarli. La violenza così tanto esibita non è il fine ma il momento cruciale di sviluppo dei caratteri.

Inutile dire come finirà (i più esperti e conoscitori delle sceneggiature ad un certo punto capiranno che c’è solo una possibile soluzione) ma non è il punto, anzi mai come in questo film il processo è il succo del discorso. Weathley sembra sapere molto bene che non basta sparare tantissime pallottole per tenere vivo il ritmo di un film in cui la situazione ritratta è sempre la stessa. Così entrano ed escono novità, ci sono diverse poste in palio, gli orgogli di 11 persone si alternano in un balletto di possibilità e rivincite, e anche le partite individuali e gli odi personali si scambiano per non appesantire troppo sull’azione tutto lo svolgimento (in questo è da applausi l’uso che Weathley fa del personaggio sopra le righe di Sharlto Copley e poi dell'outsider Brie Larson, unica donna). Anzi la grande corsa che da tre quarti è messa in scena verso il finale ha le caratteristiche della suspense migliore.

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