[TFF34] Bleed For This, la recensione

Un anti film di pugilato da una storia vera, Bleed For This non mette in scena l'esigenza di prendere colpi ma il desiderio di smettere di prenderli

Critico e giornalista cinematografico


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In ogni film tratto da una storia vera vale la pena chiedersi, quale sia davvero la storia raccontata, cioè questi fatti realmente accaduti sono trasformati in film per diventare cosa?

Nel caso di Bleed For This la risposta dovrebbe essere una storia di amicizia e confidenza con il dolore fisico, il malessere e la fatica abbracciati e non lasciati più andare. Lo esprime ovviamente la storia di Vinny Pazienza, pugile che il film si adopera per mostrarci appassionato della fatica dell’allenamento, delle botte prese più che date (“L’attacco è la mia difesa”), ma anche quella del suo allenatore con problemi d’alcol (“Brutta serata?” - “No, grande serata. È questa mattina che fa schifo”), nonchè del padre di Vinny, sempre al suo fianco che lo spinge a dare di più, fare di più, rischiare di più. Vinny poi avrà un incidente all’apice della carriera. Collo rotto, forse non cammina più. Ma non ci sta e rischia la morte per rimettersi in piedi e non solo tornare a camminare ma anche a boxare per il titolo.

Ben Younger è bravo a rendere prima di tutto l’idea del rischio mortale, a far sembrare impossibile che uno nelle condizioni di Pazienza, con i chiodi nel cranio per tenere fermo il collo, fragilissimo, possa prendere pugni dai pesi massimi. Il rischio è chiaramente percepito, l’impresa è evidente. Però sembra sorvolare o trattare con meno enfasi l’altro elemento potente dello script, cioè il masochismo, il desiderio fortissimo di sentire la fatica, di sentire proprio il dolore, di farsi levare i chiodi dal cranio senza anestesia come Lawrence D’Arabia spegneva apposta i fiammiferi con le dita. Solo che in Vinny Pazienza (quello di finzione) questo masochismo è parente della passione per la boxe, quello che per altri pugili del cinema è la sola scelta possibile in una vita disperata, per lui è una passione che si concretizza proprio nel dolore.

Il pugile del cinema è sempre uno che incassa e non uno che schiva, è uno cioè destinato a prendere colpi dentro e fuori dal ring, al pari delle donne nei melodrammi classici è un corpo fatto per soffrire, perché questo impone il genere: non può vincere se non incassa. Vinny è il contrario, la sua voglia di incassare lo fa perdere. L’autodistruzione del suo allenatore mette a repentaglio tutto e così l’ansia del padre. Bleed For This, nonostante le sue ottime scene di pugilato, la sua passione per il movimento e il pugno, il confronto fisico e il desiderio di arrivare, lo stesso è un anti-film di boxe, è uno che invita alla calma più che alla furia. Pur raccontando l’eterna storia sportiva di una volontà di ferro che (stavolta letteralmente) piega un corpo al proprio desiderio, lo stesso insegna ad evitare i colpi invece di prenderli e rialzarsi.

Inevitabilmente lo scarto dalle solite aspettative porta con sè un’ambizione alta, e il film non sempre è in grado di reggerla. Younger fa un lavoro impeccabile e anche Miles Teller sembra perfettamente in parte, atletico e simpatico come il personaggio, testardo e cocciuto. Infine pure Aaron Eckhart è un ottimo allenatore con i propri demoni ma anche il carisma giusto. Eppure l’ambizione di andare controcorrente senza averne davvero le capacità blocca il film ad un livello medio impedendogli l’eccellenza.
Si fa fatica davvero a non volere bene ad un film così, tutto sudore sangue e viti nella testa, arrabbiato e con gli occhi invasati dal desiderio di dare tutto. Però, se sì è davvero onesti con se stessi, è evidente che di tutto questo ardore Bleed For This fa veramente poco.

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