[TFF 34] The Wailing, la recensione

Nero e duro, in The Wailing non nemmeno un secondo è di troppo, ha il passo dei capolavori e la potenza del cinema di genere migliore

Critico e giornalista cinematografico


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C’è un demone, probabilmente il diavolo in persona, dietro l’epidemia che si è diffusa in un piccolo villaggio della Corea Del Sud e tutti sembrano dare la colpa ad un giapponese misterioso, arrivato assieme al male, quieto, silenzioso e losco. Il poliziotto al centro della storia, per salvare la figlia piccola da una follia mista a possessione che non la lascia, tenterà di tutto.

La miglior dote del cinema coreano, quella meno usuale per noi e che ci suona più diversa da ciò cui siamo abituati, The Wailing la possiede ai massimi livelli. Quella struttura più articolata dei nostri tre atti canonici, piena di quelle che ci appaiono come improvvise fughe della trama verso lidi imprevisti, eventi che si aggiungono quando penseremmo di essere vicini alla fine e un numero clamoroso di scene madri, è manipolata in questo film come fosse un mosaico di una chiesa bizantina, con la medesima certosina calma e cura del dettaglio che dà vita ad un quadro al tempo stesso complicato e chiaro. Facilmente sarà il film migliore di visto quest'anno.

In questa storia che sembra la dettagliata cronaca della nube nera maligna che invade il villaggio all’inizio del Faust di Murnau, unita alla cronaca spietata dell’umanità senza un domani di The Fake di Sang-ho Yeon, c’è una quantità di dettagli, storie, momenti ed evoluzioni che sommergono lo spettatore in 2 ore e mezza da cui non si esce più, assemblate per far quadrare tutto da un regista così diabolico da sembrare un ragioniere della follia. The Wailing è infatti prima di tutto un trionfo di montaggio secco ed essenziale e solo poi uno di messa in scena plumbea. La storia molto ordinaria (per quanto abilmente e piacevolmente ingarbugliata) dell’indagine del maligno da parte di un poliziotto determinato, è un trionfo di suspense e rivelazioni, mantiene le aspettative altissime per tutta la sua durata e vanta alcuni momenti come l’esorcismo tradizionale con tamburi da antologia del cinema, puro caos ordinato, pura potenza narrativa e tempesta creativa messa in immagini.

Da questo film di cui è difficilissimo parlare nel dettaglio, tanto riesce ad imporsi come un corpo unico, si esce frastornati di cinema, uno dei rari casi in cui il termine del film ti strappa ad un mondo in cui era riuscito a incastrarti come se tu stesso gli appartenessi. In quest’orchestra di centinaia di elementi tutti all’opera all’unisono per un’armonia semplice e accattivante Hong-jin Na (regista e sceneggiatore) si distingue come un architetto della narrazione capace alla fine anche di arrivare a mostrare l’oggetto di tante ricerche senza che si rimanga delusi.

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