[TFF 34] The Wailing, la recensione
Nero e duro, in The Wailing non nemmeno un secondo è di troppo, ha il passo dei capolavori e la potenza del cinema di genere migliore
La miglior dote del cinema coreano, quella meno usuale per noi e che ci suona più diversa da ciò cui siamo abituati, The Wailing la possiede ai massimi livelli. Quella struttura più articolata dei nostri tre atti canonici, piena di quelle che ci appaiono come improvvise fughe della trama verso lidi imprevisti, eventi che si aggiungono quando penseremmo di essere vicini alla fine e un numero clamoroso di scene madri, è manipolata in questo film come fosse un mosaico di una chiesa bizantina, con la medesima certosina calma e cura del dettaglio che dà vita ad un quadro al tempo stesso complicato e chiaro. Facilmente sarà il film migliore di visto quest'anno.
Da questo film di cui è difficilissimo parlare nel dettaglio, tanto riesce ad imporsi come un corpo unico, si esce frastornati di cinema, uno dei rari casi in cui il termine del film ti strappa ad un mondo in cui era riuscito a incastrarti come se tu stesso gli appartenessi. In quest’orchestra di centinaia di elementi tutti all’opera all’unisono per un’armonia semplice e accattivante Hong-jin Na (regista e sceneggiatore) si distingue come un architetto della narrazione capace alla fine anche di arrivare a mostrare l’oggetto di tante ricerche senza che si rimanga delusi.