[TFF 34] Free State Of Jones, la recensione

Ruffiano come il cinema americano sa essere quando vuole farsi serioso, Free State of Jones ha nella sua ultima parte una serie di sorprese non male

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Nella storia di Free State Of Jones, per fortuna, c’è più della vera ribellione fomentata dal capitano Knight.

Gary Ross, che scrive e dirige, ha la ferma intenzione di non lasciare che quell’evento sia imbrigliato e raccontato nel suo tempo ma di spalmarlo prima negli anni subito successivi e poi con un salto temporale di 85 anni in avanti nell’America degli anni ‘50, in cui un erede di Knight subisce un processo per aver sposato una donna bianca (lui che ha un ottavo di sangue nero). Sembra un dettaglio ma non lo è perché in un film così convenzionale la storia sembra pronta a chiudersi a tre quarti, quando in realtà il film si rimbocca le maniche e comincia a lavorare di immagini davvero significative per dimostrare che nulla finisce con la vittoria e che nemmeno un diritto sancito dalla costituzione cambia le cose.

La scrittura di Free State Of Jones insomma non si allontana dalla consueta ruffianeria retorica che il cinema americano mette in campo quando vuole esibire un preciso intento sociale, quando sente il peso dello scopo didattico. Eppure nelle pieghe di questo film ci sono molte più concessioni alla “sperimentazione” (virgolette d’obbligo!) di quanto non sembri. Non è infatti la consueta centralità della star nell’economia del racconto, la divisione manichea o l’odiosa stereotipizzazione di qualsiasi “cattivo” a convincere davvero, quanto la maniera in cui la parabola di un bianco che decise di ribellarsi a chi opprimeva lui e altri cittadini di serie B o C (nel caso dei neri) sia una maniera di chiedersi cosa voglia dire fare una rivoluzione e cambiare le cose, per concludere che non somiglia a quel che il cinema di solito ci racconta.

I film mettono in scena il cambiamento come una serie di passi bene identificabili, una serie di storie puntuali in cui chi si comporta male viene punito, e chi ha un diritto che viene calpestato alla fine vede riconosciuto il proprio legittimo desiderio. Titoli di coda. In Free State Of Jones la battaglia non finisce mai. Ad ogni conquista segue un movimento contrario, ogni qualvolta si ha l’impressione che il film possa finire e i personaggi possano vivere sereni in realtà accade un nuovo sopruso: le conquiste non sono applicate, compare il Ku Klux Klan o un giudice connivente contravviene ad ogni precetto e Knight reimbraccia il fucile.

Alla fine la vera ossessione non è quella per affermare un diritto ma quella che impone una lotta senza fine, a cui sempre meno persone aderiscono. Per chi non vuole arrendersi ad andarsene o ad abbassare la testa non ci può essere termine della lotta e la storia di Knight non si ferma nemmeno dopo la sua morte, negli anni ‘50. Quando tutti gli altri si accontentano dei piccoli cambiamenti e cominciano a pensare alla propria sopravvivenza e al proprio orticello, solo la follia di un McConaughey emaciato e con gli occhi vitrei lavora per il mantenimento dei diritti, solo qualcuno che pare un masochista può ancora avere la forza di andare a votare per il partito Repubblicano imbracciando un fucile (che poi forse è l’immagine che dovremmo eleggere a simbolo del 2016).

Continua a leggere su BadTaste