TFF 32 - The Babadook, la recensione
Il cinema dell'orrore al suo meglio. The Babadook usa tutte i migliori trucchi dell'horror nella meno prevedibile delle storie
Si tratta di un film di paura scritto e girato da una donna australiana, Jennifer Kent, che adotta il principio "meno è meglio" del nuovo horror minimalista in stile Jason Blum che ha dato vita ai film migliori degli ultimi anni: quasi solo un ambiente, quasi solo due personaggi, massima concentrazione su una messa in scena curata, tecnica e diversa dal solito.
L'impianto è quindi molto tradizionale ma quel che differenzia l'opera di Jennifer Kent è la maniera in cui la regista approccia il lato oscuro della mente da cui scaturisce la paura, quell'idea per la quale il terrore sia qualcosa interno ad ognuno, una presenza che è vera prima nel cervello e che poi proiettiamo negli anfratti bui, nelle porte che si aprono e nelle cantine oscure. Lavorando magistralmente sugli ambienti, sui colori delle pareti, sulle ombre e i tagli di luce, sui vestiti e sulle inquadrature, montando la lunga sequenza di furia casalinga assieme alle immagini della televisione e giocando in una maniera fantastica con le favole e i cartoni classici (si vede molto i tre porcellini e lupo travestito da agnello ma non è l'unico riferimento c'è anche il gotico burtoniano e l'espressionismo tedesco) Jennifer Kent ottiene un horror che all'efficacia della paura affianca la discesa nella testa di Amelia, la donna distrutta che nella prima parte scatena più rabbia che compassione, per arrivare a fare quel che i film dell'orrore non fanno mai: passare dalla fondazione della paura alla sua risoluzione.
Durante The Babadook si può provare disagio e tensione autentiche ma se ne esce totalmente privi, invece che scombussolare certezze e risvegliare dubbi sulla vita individuale degli spettatori il film entra ed esce dalla disperazione, trascina verso il basso e con una forza clamorosa e inattesa risale la corrente.
In questo senso Jennifer Kent non punta al fine degli altri film di paura ma usa tutte quelle tecniche (e come le padroneggia!) per dire altro, per raccontare una storia abbastanza banale (che non riveliamo perchè trova il suo svelamento solo in un finale quasi miyazakiano) con la partecipazione, la dignità e la serietà che meritano i grandi film.