Terminal List (stagione 1): la recensione

Al servizio di un Chris Pratt sempre più eroe americano per eccellenza, Terminal List soffre un intreccio troppo diluito dal formato seriale. La recensione

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La nostra recensione della serie Terminal List, disponibile su Amazon Prime Video dal 1° luglio

In poco tempo, abbiamo visto Chris Pratt coprire l’intera gamma dell’eroe americano per eccellenza. Dopo essere stato un modermo cowboy nella saga di Jurassic World (impressione cementata dall’entrata in scena nell’ultimo capitolo) e un reduce che combatte per salvare l'umanità in La guerra di domani, in Terminal List veste i panni di un militare eroico, valoroso, legato e fedele tanto quanto alla famiglia sul campo (i suoi commilitoni) che ad quella che ha lasciato a casa ad aspettarlo, composta da moglie e figlia piccola.

La trama di Terminal List

Nella serie Amazon, basata sul romanzo di Jack Carr, Pratt interpreta James Reece, capitano dei Navy SEAL che con la sua squadra finisce in un’imboscata durante un’operazione segreta in Siria. In quell’occasione, tutti i suoi compagni vengono sterminati e l'uomo torna a casa dalla sua famiglia, ma è preda di ricordi confusi dell’evento e di dubbi sulle sue responsabilità. Decide così di indagare alla ricerca della verità e dei responsabili dell’accaduto, spinto da una sete di vendetta che lo porterà a scoprire un complotto che coinvolge uomini d’affari e politici. Lo aiuta un’intrepida giornalista (Costance Wu) e un ex commilitone entrato ora nelle fila della CIA (Taylor Kitsch).

Una narrazione con dei punti in comune con Clint Eastwood

Reece è dunque un militare americano che lotta contro il sistema corrotto rimanendo sempre nel giusto, costretto a tornare, suo malgrado, all’azione. Uno spunto di partenza vicino a quello dei film di Antoine Fuqua (che aveva già lavorato con Pratt ne I magnifici 7), qui produttore esecutivo e regista del primo episodio. La storia della serie, dopo un incipit sul fronte militare, si sposta negli Stati Uniti, diventando un thriller cospirativo che poi si intreccia con la storia di un giustiziere privato,inflessibile e determinato a portare a termine la sua missione (ad un certo punto lo sentiamo pronunciare la famigerata sentenza "Io sono giustizia").

Frasi di questo tipo, così come immediati e ricorrenti simbolismi, indicano del resto bene l’orizzonte, e il limite, di The Terminal List. Durante la missione sul campo, Pratt ha una folta barba che lo rende un po’ più serio rispetto ai ruoli scanzonati in cui eravamo abituati a vederlo. Tornato a casa dai suoi cari, se la taglia, ma poi eccola riapparire non appena le cose si metteranno nuovamente male, chiara rappresentazione di una gravitas che l’attore fa fatica a sostenere, più a suo agio nelle scene d’azione rispetto a quelle intimistiche e riflessive. Questo approccio viene poi ribadito anche da tutto l’intreccio, che fa luce su tutte le sue zone d’ombra e non sfrutta il suo potenziale cuore nero.

Nel corso delle vicende, Reece più volte passa accanto a bandiere a stelle e strisce in atmosfere pessimistiche e cupe, ma l’idea degli Stati Uniti che emerge nella serie non è mai veramente problematica. La sua è una discesa nel marcio di una società che lo porta ad abbracciare sempre di più la violenza, diventando un vero e proprio terrorista, ma la sua integrità non viene mai messa in discussione. Il suo essere un capitano dei Seal e il trauma che deve affrontare alla fine del primo episodio, e che lo accompagnerà nei restati, lo rendono personaggio con cui empatizzare e provare pietà. Siamo dunque più vicini alla filosofia dell'ultimo Clint Eastwood: la rettitudine del singolo si contrappone alla bassezza di chi lavora ai piani alti, ma non sono tanto le istituzioni in sé (o l’idea stessa di un intervento militare in una terra straniera) ad essere sbagliate, quanto le persone che ne tengono le redini, spinte da opportunismo e corruzione. In particolare, Terminal List ricorda American Sniper, nella sua semplificazione delle tematiche, nel suo rendere un protagonista (sulla carta) complesso un eroe senza ambiguità, nel suo patriottismo e nazionalismo di fondo (nonché, immaginiamo, il suo essere modello per una certo pubblico americano). La serie fa inoltre un passo ulteriore, caratterizzando monodimensionalmente gli antagonisti come rozzi e altezzosi, personaggi che si confrontano giocando a "chi è il più minaccioso e il più potente", tutti sempre sicuri di farla franca, un attimo prima di fare i conti col protagonista.

Al risultato complessivo, non contribuisce inoltre il formato seriale. Gli 8 episodi da cui è composta la prima stagione (tutti sopra i 50 minuti) dilungano oltre misura una vicenda che avrebbe potuto essere benissimo trattata in un film da due ore, agile e senza fronzoli. Invece, in questo modo, assistiamo ad una continua ripetizioni di flashback, di momenti introspettivi alquanto superflui, di scene d’azione ben girate ma tutto sommato generiche, con un'efferatezza sempre solo accennata. E lo svolgimento, nonostante proponga continui colpi di scena e progressive rivelazioni, risulta dispersivo (troppi personaggi coinvolti) né coinvolge mai a pieno (una volta assodato il livello di corruzione, può stupire fino a che livelli questa si protrae?). Terminal List è, in conclusione, una serie poco originale e poco appassionante, un discreto prodotto di consumo che si dimentica però in fretta.

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