Ted Bundy: Fascino Criminale, la recensione
Nonostante sembri farsi le domande giuste, Ted Bundy: Fascino Criminale è troppo goffo e superficiale per andare davvero a fondo
La suspense è acuita dal fatto che Berlinger decide di girare tutta la storia dal punto di vista di una delle sue compagne, una donna che l’ha accolto in casa e ci ha vissuto per diverso tempo, l’ha amato e per decenni si è chiesta se davvero avesse vissuto con un mostro omicida brutale o no. Esiste infatti in Bundy il fascino criminale di cui parla il titolo, una specie di aura naturale, un’attrattiva fortissima a cui le donne faticavano a resistere ma dalla quale non erano esclusi gli uomini. Il processo Bundy è stato il primo trasmesso in televisione in America e questo non ha fatto che amplificare la tendenza dell’imputato a fare di sé un personaggio.
Accade infatti che ad un certo Ted Bundy: Fascino Criminale smetta di seguire il suo punto di vista privilegiato (è tratto da un libro di memorie della compagna in questione) e cominci a seguire quello televisivo. Berlinger si fa affascinare da questo meccanismo di adorazione per il quale anche il giudice del processo lo guarda con sguardo benevole, lo tratta da suo pari e ci scherza. A tutti piace Bundy anche se le accuse sono incredibili, le foto e le efferatezze irraccontabili.
Zac Efron, con la complicità del film e le vere (clamorose) battute di Ted Bundy, riesce a creare l’aura solare e benevola di questo accusato ma tutto si ferma lì, una volta raggiunta e ottenuta la benevolenza del pubblico non cerca di approfondire quel meccanismo ma ritorna ad occuparsi dell’autrice del libro da cui tutto è tratto.