Ted Bundy: Fascino Criminale, la recensione

Nonostante sembri farsi le domande giuste, Ted Bundy: Fascino Criminale è troppo goffo e superficiale per andare davvero a fondo

Critico e giornalista cinematografico


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Al di fuori degli Stati Uniti Ted Bundy non è una figura popolare. Chi non si interessa alle questioni di cronaca nera internazionali o non ha visto alcuni tra i molti documentari che lo raccontano (incluso l’ultimo su Netflix, diretto dallo stesso regista di questo film di finzione) non sa nemmeno di cosa stiamo parlando. Per questo Ted Bundy: Fascino Criminale da noi gioca un altro campionato rispetto a quello che gioca in patria: noi non sappiamo come questa storia vada a finire. Il dettaglio incredibile è che il film di Joe Berlinger sembra tenerne conto, sembra scritto per chi non sa nulla del protagonista e lo lascia per quasi tutta la sua durata con la suspense della rivelazione finale. È stato davvero lui ad uccidere tutte quelle donne come dicono le tante accuse? O è stata una catena di accuse pretestuose ai suoi danni come sostiene?

La suspense è acuita dal fatto che Berlinger decide di girare tutta la storia dal punto di vista di una delle sue compagne, una donna che l’ha accolto in casa e ci ha vissuto per diverso tempo, l’ha amato e per decenni si è chiesta se davvero avesse vissuto con un mostro omicida brutale o no. Esiste infatti in Bundy il fascino criminale di cui parla il titolo, una specie di aura naturale, un’attrattiva fortissima a cui le donne faticavano a resistere ma dalla quale non erano esclusi gli uomini. Il processo Bundy è stato il primo trasmesso in televisione in America e questo non ha fatto che amplificare la tendenza dell’imputato a fare di sé un personaggio.

Purtroppo questo regista che viene dal documentario seriale e solo raramente ha lavorato al cinema di finzione non appare mai a suo agio. Già nella prima scena il trucco che invecchia i protagonisti appare posticcio, per tutto il resto della storia faremo un po’ fatica a capire gli snodi di trama, ci saranno diverse goffagini nello spiegare le motivazioni dei singoli personaggi e alla fine rimarrà più che altro il sapore di una storia da approfondire altrove. Invece di cavalcare il pregio dei film (non raccontare una grande storia ma approfondirne bene un aspetto) Berlinger ne fa un piccolo documentario.

Accade infatti che ad un certo Ted Bundy: Fascino Criminale smetta di seguire il suo punto di vista privilegiato (è tratto da un libro di memorie della compagna in questione) e cominci a seguire quello televisivo. Berlinger si fa affascinare da questo meccanismo di adorazione per il quale anche il giudice del processo lo guarda con sguardo benevole, lo tratta da suo pari e ci scherza. A tutti piace Bundy anche se le accuse sono incredibili, le foto e le efferatezze irraccontabili.

È evidente che Berlinger qui si ponga la domanda giusta, quella perfetta da esplorare in un film (che pure funziona appoggiandosi al fascino e al carisma dei suoi protagonisti). Purtroppo però lo fa male, solo a tratti e senza approfondire davvero.

Zac Efron, con la complicità del film e le vere (clamorose) battute di Ted Bundy, riesce a creare l’aura solare e benevola di questo accusato ma tutto si ferma lì, una volta raggiunta e ottenuta la benevolenza del pubblico non cerca di approfondire quel meccanismo ma ritorna ad occuparsi dell’autrice del libro da cui tutto è tratto.

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