Tatami - Una donna in lotta per la libertà, la recensione

Tra i migliori film sportivi degli ultimi anni, Tatami prova che l'azione vale più di mille parole nella lotta simbolica ai regimi.

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La recensione di Tatami, il nuovo film diretto da Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi, in arrivo al cinema dal 4 aprile.

Tommie Smith e John Carlos che alzano il pugno guantato di nero sul podio olimpico di Città del Messico ’68, la testa china per timore di una pallottola; la nazionale congolese ai mondiali del 1974 che gioca con la disperazione di chi sa che la propria famiglia è ostaggio della polizia di Mobutu. La purezza dello sport contro la violenza dei regimi l’hanno sempre raccontata meglio i grandi fotografi e cronisti. Tatami è fra i pochissimi film ad avere la stessa forza d’urto di quelle istantanee in bianco e nero, di quelle immagini televisive sgranate. Sotto l’elegante superficie autoriale batte il cuore del più potente e viscerale film sportivo visto di recente al cinema; uno di quelli che capiscono l’intrinseca capacità di sintesi politica del genere, mischiando tensione agonistica e invettiva in un’esemplare parabola umana.

Judo significa “via della cedevolezza”. Ma non ditelo a Leila Hosseini (Arienne Mandi) campionessa della nazionale iraniana in corsa per il titolo mondiale, che si trova davanti una scelta terribile: la federazione iraniana le intima di simulare un infortunio e ritirarsi per non rischiare di incontrare in finale un’atleta israeliana (causa l’ostilità fra i due paesi). Se si rifiuta metterà in pericolo la sua famiglia. Se accetta si piegherà al regime come fece la sua coach (Zar Amir Ebrahimi).

Da sempre il miglior cinema sportivo è quello che sa intuire e restituire in forma epica una caratteristica fondamentale dello sport stesso: la sua capacità di costruire exempla, storie di uomini e donne che attraverso l’impresa sportiva assurgono a simboli di qualcosa di più grande e universale di loro. Tatami fa esattamente questo con la libertà individuale – soprattutto quella femminile – messa sotto scacco da un governo autoritario e repressivo. Con “epico” intendiamo proprio la radice della parola, che fa riferimento all’azione. Perché un grande film sportivo è anzitutto e per definizione un film d’azione, dove le idee non si esprimono a parole ma si concretizzano nel gesto atletico, nel dinamismo dei corpi, nella costruzione drammaturgica di un incontro.

Sono proprio queste le cose che il film azzecca in pieno, forte di un’asfittica struttura a blocchi che alterna la successione dei combattimenti a dialoghi e flashback necessari a ricostruirne il contesto, e che infonde il racconto dello stesso sapore nervoso e battagliero delle sfide sul tatami. La regia di Nattiv e Ebrahimi (lui israeliano, lei iraniana) si esalta tanto nella costruzione di splendide geometrie in bianco e nero quanto nell’accumulo di dettagli fisici, concreti, mai fini a sé stessi ma che si dispiegano e “respirano” nel corso della narrazione: una ferita alla fronte; il velo che copre i capelli di Leila; il primissimo piano di un’atleta che subisce uno strangolamento. In Tatami converge la lezione dei migliori drammi sportivi sul “rialzare la testa”, dalla disperazione in quasi-tempo reale di Stasera ho vinto anch’io al risveglio della dignità (da groppo alla gola) di Million Dollar Baby. È un film di finzione, ma colpisce con la stessa forza di quelle immagini vere di atleti in lotta con la storia.

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