Tatami - Una donna in lotta per la libertà, la recensione
Tra i migliori film sportivi degli ultimi anni, Tatami prova che l'azione vale più di mille parole nella lotta simbolica ai regimi.
La recensione di Tatami, il nuovo film diretto da Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi, in arrivo al cinema dal 4 aprile.
Judo significa “via della cedevolezza”. Ma non ditelo a Leila Hosseini (Arienne Mandi) campionessa della nazionale iraniana in corsa per il titolo mondiale, che si trova davanti una scelta terribile: la federazione iraniana le intima di simulare un infortunio e ritirarsi per non rischiare di incontrare in finale un’atleta israeliana (causa l’ostilità fra i due paesi). Se si rifiuta metterà in pericolo la sua famiglia. Se accetta si piegherà al regime come fece la sua coach (Zar Amir Ebrahimi).
Sono proprio queste le cose che il film azzecca in pieno, forte di un’asfittica struttura a blocchi che alterna la successione dei combattimenti a dialoghi e flashback necessari a ricostruirne il contesto, e che infonde il racconto dello stesso sapore nervoso e battagliero delle sfide sul tatami. La regia di Nattiv e Ebrahimi (lui israeliano, lei iraniana) si esalta tanto nella costruzione di splendide geometrie in bianco e nero quanto nell’accumulo di dettagli fisici, concreti, mai fini a sé stessi ma che si dispiegano e “respirano” nel corso della narrazione: una ferita alla fronte; il velo che copre i capelli di Leila; il primissimo piano di un’atleta che subisce uno strangolamento. In Tatami converge la lezione dei migliori drammi sportivi sul “rialzare la testa”, dalla disperazione in quasi-tempo reale di Stasera ho vinto anch’io al risveglio della dignità (da groppo alla gola) di Million Dollar Baby. È un film di finzione, ma colpisce con la stessa forza di quelle immagini vere di atleti in lotta con la storia.