Tales from the Loop: la recensione

Tales from the Loop non è soltanto un genere diverso di storia di fantascienza, ma è anche un tipo di racconto televisivo diverso rispetto all'ordinario.

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Tales from the Loop: la recensione

Tales from the Loop non è soltanto un genere diverso di storia di fantascienza, ma è anche un tipo di racconto televisivo diverso rispetto all'ordinario. Esiste nell'incontro tra lo straordinario e il quotidiano, tra il new weird di Annientamento e l'esistenzialismo di The Leftovers. La serie di Amazon Prime Video ispirata alle opere di Simon Stalenhag trascende i meccanismi attesi delle storie per andare a imbastire un tragico affresco umano, familiare, personale. Intima, catartica, rarefatta, è un'esperienza televisiva di grande complessità e fascino, che chiede molto allo spettatore.

Da qualche parte esiste un laboratorio, il Loop, nel quale scienziati portano avanti esperimenti che hanno l'obiettivo di comprendere la natura stessa dell'universo. Nella zona circostante, dove vivono principalmente le famiglie delle persone impiegate nella struttura, iniziano a verificarsi strani accadimenti. Artefatti o semplici luoghi sono deformati dall'eccezionalità del posto, e diventano veicoli per esperienze straordinarie che coinvolgono molte persone legate tra di loro. Ognuno degli otto episodi racconta una di queste storie.

Sarebbe più semplice iniziare a definire Tales from the Loop per negazione, chiarendo bene cosa non è. Non è una serie sui misteri, non è un thriller, non propone una mitologia fantascientifica da ricostruire a posteriori. L'equivoco nel quale si rischia di cadere è lo stesso di The Leftovers: le domande non sono importanti, le ripercussioni sulle persone e i temi lo sono. Ogni episodio è dedicato a un personaggio, ma questa non è nemmeno una serie antologica, perché le persone sono tutte legate tra di loro. E il finale assume un grande impatto emotivo nell'essere la somma delle straordinarie esperienze che l'hanno preceduto.

Cos'è allora questo oggetto televisivo così strano? L'ambientazione è figlia delle opere di Simon Stalenhag, artista che inserisce elementi fantascientifici nella tipica cornice rurale americana. Nelle intenzioni della serie, la presenza e la funzione di certi artefatti non è spiegata del tutto, mentre tutta l'attenzione è deviata sull'impatto ambientale. In questo senso, pur senza mai sfociare nell'horror, Tales from the Loop è affine al linguaggio del new weird, sottogenere fantastico che racconta le contaminazioni e le bizzarrie di un ambiente sottoposto ad un'influenza "aliena" (nel senso di sconosciuta all'umano).

C'è allora Annientamento, per citare qualcosa di recente, ma c'è anche la tradizione fantascientifica di Tarkovskij. Non è rilevante cosa si celi nella Zona o su Solaris, perché più importante è la reazione della mente di fronte all'inspiegabile. La serie di Nathaniel Halper tuttavia va ancora oltre, si lascia alle spalle elucubrazioni particolari e abbraccia per istinto la condizione umana di fronte all'inesplicabile. Perché parte dall'idea che questo, fantascienza a parte, faccia parte delle nostre vite. C'è una pietà di fondo – che ricorda moltissimo la purezza rarefatta di The Leftovers – nello sguardo della serie che racconta storie di morte, allontanamento, isolamento, rimpianto, scoperta di sé.

L'inspiegabile e l'inevitabile si abbattono sul personaggio interpretato da Rebecca Hall e sulla sua famiglia (nel cast anche Jonathan Pryce). E c'è sempre questa contraddizione di fondo tra un'umanità alle porte della ricerca sulla risposta definitiva, e il singolo umano trascinato dagli eventi. Perché Tales from the Loop, che ha molto di storie come Dark o Predestination, è anche una serie fatalista e crudele. Un'epopea famigliare alla quale non sapevamo di assistere, che procede secondo sentieri che non sapevamo di percorrere. E mai semplice o immediata. Gli episodi durano molto e la durata si avverte: 55 minuti che pesano, dal ritmo lento, dalle storie niente affatto facili. Lo show non cerca di compiacere lo spettatore, e rimane una visione molto impegnativa.

Dopo episodi diretti tra gli altri da Mark Romanek, Andrew Stanton, Ti West, la serie approda ad un finale diretto da Jodie Foster che raccoglie il carico emotivo degli episodi precedenti ed elabora la sua narrazione su un piano successivo. E, nella sovrapposizione di immagini che chiude la serie, possiamo davvero pensare di aver sperimentato qualcosa di quasi mai visto in tv.

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