Takeway, la recensione

Takeaway dimostra che per far passare un messaggio "sociale" il modo migliore sia evitare i toni sfacciatamente moralistici

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La recensione di Takeaway, il film di Renzo Carbonera dal 20 gennaio al cinema

I titoli di coda di Takeaway si aprono con un cartello che informa sull’alta percentuale di atleti che ricorre a sostanze dopanti. Una spia di intenti didascalici che fortunatamente il film, nel raccontare una storia che fa di questo tema il suo fulcro, non persegue: il suo focus non è la denuncia ma i personaggi e l'ambiente che li circonda. Lo capiamo da una delle prime scene, in cui la protagonista, Maria (Carlotta Antonelli), si bacia con Johnny (Libero di Rienzo) suo compagno e allenatore molto più grande di lei. L'atmosfera è lugubre e trasmette un senso di degrado e morbosità, veicolato da una luce grigio metallica che sempre riempie gli interni e che contrasta con il pallidissimo volto della ragazza. Lei è una giovane marciatrice con l'ambizione di fare carriera nell’atletica, lui un ex preparatore atletico sospeso a causa di uno scandalo di doping che decide di fornirle sostanze illecite per potenziare l’attività agonistica.

Il regista Fabio Carbonera, esordisce nel lungometraggio di finzione riproponendo l’ambientazione in un paesino di montagna del suo precedente documentario Resina: questa volta siamo tra il Trentino Alto Adige e i monti Terminillo. Un microcosmo staccato dal resto del mondo, con spazi deserti e spettrali, coperti di neve e circondati da una forte nebbia, dove riecheggiano atmosfere horror (la stazione di servizio immersa nella notte sembra essere il luogo più pericoloso, come in Alta tensione). Qui germoglia il silenzio e l'indifferenza dei compaesani, che non risparmia neanche i genitori della ragazza. Il padre della ragazza (Paolo Calabresi) ormai incapace di reagire all’apatia che lo circonda, accetta senza problemi e anzi avvalla la decisione della figlia. La madre (Anna Ferruzzo) dubita invece della sua riuscita, ma si preoccupa solo all’aspetto economico: gestisce un hotel ormai vuoto che vorrebbe ristrutturare nella speranza di riattrarre i turisti, senza considerare la situazione ormai irreversibile e le alte spese. Ma l'asetticità, il malessere sono pervasivi e influenzano tutti.

Nella sua ultima interpretazione, Libero di Rienzo ripropone quell’amarezza, quell'atteggiamento dismesso che ha sovente caratterizzato i suoi personaggi, ma svuotati di qualunque (auto)ironia. Il suo è un inedito ruolo "negativo" che non assume però tratti mefistofelici, come incarnazione del male, ma resta molto più ambiguo: porta avanti i suoi progetti sempre con fatica e disillusione, c’è la sensazione che questi siano quasi una conseguenza inevitabile di un ambiente in cui la correttezza è ormai un’utopia e il suo rapporto con Maria appare più dettato da un (malsano) accudimento piuttosto che da un abuso fisico e mentale. Anche la ragazza non è una vittima sacrificale, ma assume una posizione attiva nel momento che decide di continuare indefessa gli allenamenti e anzi risponde a tono al compagno. Una relazione alla pari, in cui entrambi non si accorgono e sono responsabili della deriva che ne consegue. In queste posizione molto sfumate, e nello sguardo del regista, il film trova il proprio punto di forza.

Piuttosto che alzare i toni da predica e guardarli dal pulpito, Carbonera partecipa alla sofferenze dei suoi personaggi, come prodotto dell'ambiente in cui sono rinchiusi. Si focalizza in particolare sulla fisicità della ragazza, stremata dalle lunghe sessioni di allenamento, con dettagli dei piedi in movimento e delle anche oscillanti, mettendolo a confronto con quello più prestante delle sue avversarie. Il film si avvicina così al Body horror: il doping è la causa del dolore del suo corpo che sfocia nella lacerazione. Tale quasi da provocarne una mutazione che ne mina lo sviluppo, richiamando quella sovrapposizione tra il filone e coming of age al femminile (come nei film di Julia Ducournau, regista di Raw: la scoperta dell'istinto cannibalico provoca un eritema e diventa sintomo del difficile passaggio alla maturità), ma qui in una dimensione totalmente realistica, dove è ben chiara l'origine del suo male. Ne derivano così visioni senza sconti, da cui il regista non si ritrae.

Takeaway dimostra così che per far passare un messaggio "sociale" il modo migliore sia evitare i toni sfacciatamente moralistici e fare leva su una narrazione complessa, in cui la presa di coscienza sul finale non può cancellare quanto visto in precedenza.

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