Sylvie's love, la recensione

Melodramma moderno con modelli contemporanei che strizza l'occhio all'estetica anni '50, Sylvie's Love non trova né i primi né la seconda

Critico e giornalista cinematografico


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Se fossimo stati negli anni ‘70 Sylvie's Love sarebbe stato promosso senza scrupoli come Black La La Land, cioè la versione afroamericana di quella stessa storia, aggiustata per adattarsi alla cultura che il jazz l’ha creato e che le difficoltà di emergere nella società le ha vissute sulla propria pelle.

In pochissimi riescono a raccontare i melodrammi nell’epoca contemporanea perché i contrasti e le gabbie sociali sono molto minori rispetto a prima. Anche per questo gli anni ‘50 rimangono il setting prediletto per mettere in scena storie in cui di nuovo i personaggi femminili possono passare quel martirio solitario che caratterizza il genere. Sylvie’s Love quindi non solo ricrea lo stile patinato dei melò degli anni ‘50 ma soprattutto trova in quell’ambientazione la possibilità di far combattere la protagonista contro il destino e più di tutto contro la società. O meglio la troverebbe perché di lotta nel film ce n’è pochissima.

Fa specie come l’intreccio di una donna e un uomo della New York degli anni ‘50, una intenta ad avere una carriera nella produzione televisiva, l’altro in cerca di una possibilità di sfondare come sassofonista nella scena jazz, abbia a cuore le difficoltà per la protagonista di conciliare amore e carriera ma cerchi di essere totalmente apolitico. È ben calcato il fatto che una donna negli anni ‘50 facesse molta fatica a curare la propria carriera al pari di un uomo, ma il colore della pelle dei protagonisti sembra non avere nessuna economia e non porre nessun problema. Benestanti, sereni, integrati e a loro agio in un mondo che in linea di massima non li discrimina mai (solo una volta a cena la moglie di un superiore si lascia sfuggire un complimento che ha un retrogusto un po’ razzista), e questo non sembra far strano al film, non sembra necessitare di una spiegazione o di una contestualizzazione.

La storia di Sylvie afferma l’inarrestabile (ma del resto pochi hanno provato a fermarla) carriera di una donna afroamericana in un’epoca in cui il suo primo marito l’avrebbe voluta a casa e il suo vero amore non riesce a realizzarsi. Sylvie è una donna eccezionale e tanto ci basti. Questa semplificazione di fatto annulla la missione del melò, cioè fiaccare ogni resistenza raccontando l’intensità di un sentimento attraverso la forza con la quale viene osteggiato.

Dunque alla fine a Sylvie's Love non interessa il discorso razziale (e lo silenzia), non gli interessa lo struggimento sentimentale (e lo silenzia), gli interessa solo la fatica per una donna di conciliare amore e professione, idea per la quale gli anni ‘50 sono una mera semplificazione (è un problema anche oggi). L'esaltazione della sua protagonista, Tessa Thompson, anche produttrice, è il punto di tutto, non il suo martirio come prevederebbe il genere.

In questo modo alla fine che Eugene Ashe (regista e sceneggiatore del film) imiti altri modelli non è di certo un problema (anche i suoi modelli imitano a loro volta), lo è semmai il fatto che a fronte di quest’imitazione non crei nulla di aggiuntivo. Ruba dagli anni ‘50 e punta sul medesimo contrasto del film di Chazelle non sapendo ricreare né la tensione ambiziosa verso un domani migliore in cui realizzare i propri desideri, né il bisogno terribile di un’altra persona accanto a sé da poter chiamare “un proprio simile”.

Se davvero l’obiettivo del film è raccontare l’amore del titolo è un fallimento, se invece è di stabilire un precedente, una produzione che punti tutto su una coppia afroamericana per un languido film d’amore e ricostruzione d’epoca tale quale a quelli dei bianchi, allora è un successo.

 Sei d'accordo con la nostra recensione di Sylvie's Love? Scrivicelo nei commenti dopo aver visto il film, dal 23 dicembre su Amazon Prime Video

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