Sweet Tooth (stagione 2), la recensione
Sweet Tooth conferma le buone sensazioni della prima stagione alzando la posta in palio e soprattutto allargando lo sguardo
La recensione della stagione 2 di Sweet Tooth, disponibile su Netflix
La situazione dei protagonisti
Alla fine della prima stagione, avevamo lasciato il gruppetto di protagonisti composto da Gus, Jepp e Bear in condizioni pietose. Il primo prigioniero di Abbot nello zoo che fu rifugio gestito da Aimee Eden e che ora è campo base e laboratorio di ricerca degli Ultimi Uomini. Il secondo quasi morto, salvato dalla stessa Eden e con una gran voglia di vendetta. La terza diventata più o meno senza volerlo la custode dei segreti dell’origine di Gus, nonché l’unica ad aver comunicato in qualche modo con la sua misteriosa madre. Li ritroviamo tutti come li avevamo lasciati, e Sweet Tooth si prende il suo tempo per rimettere in moto i suoi meccanismi narrativi.
Questo perché i personaggi erano e restano il cuore della serie, più ancora delle loro vicende; e qui ci sono una lunga serie di rapporti da allacciare, con Gus che per la prima volta nella sua vita si trova in compagnia di un gruppo di suoi “simili”, ma anche con il dottor Singh e la moglie Rani “ospiti” di Abbot (a proposito: Neil Sandilands, sempre più Ivo Robotnik, in questa stagione si muove in territori da Oscar), e pure l’improbabile alleanza tra Aimee e Jepp che ci regala alcuni magnifici momenti di spacconeria anni Ottanta. È uno dei segreti di Sweet Tooth e la seconda stagione ci punta moltissimo: la capacità di piegare il genere alle esigenze narrative, di usare alternativamente l’action, il dramma, la commedia, il racconto per ragazzi in base a quello che serve per portare avanti la storia – ma sempre rispettandone i linguaggi e le specificità, in quella che è anche una dichiarazione d’amore a tutte le possibili sfaccettature della post-apocalisse narrativa.
La gestione dei personaggi
È quasi miracoloso l’equilibrio con cui la seconda stagione di Sweet Tooth riesce a gestire così tante storyline separate ed egualmente importanti. Gus è meno al centro dell’attenzione di quanto fosse (giustamente) nella prima stagione, addirittura scompare di scena per interi episodi, e il resto del cast non può che guadagnarne. Ovviamente questo non mette la serie del tutto al riparo dai rischi di una storia corale: per forza di cose non tutte le storie sono ugualmente interessanti o ben gestite, e alcune in particolare vengono allungate e stirate oltre il necessario solo per farle rientrare cronologicamente nell’intricata sequenza di eventi che porterà alla fine (non lo consideriamo uno spoiler) tutte le traiettorie a incrociarsi contemporaneamente sullo zoo.
Ci riferiamo in particolare ai coniugi Singh, lui in particolare, che prosegue nella spirale verso l’abisso cominciata nella prima stagione e arriva a esplorare angoli dell’animo umano che solitamente preferiamo ignorare. Tutto il materiale che lo riguarda è eticamente provocatorio ed è probabilmente la faccia più esplicitamente politica di Sweet Tooth, ma è anche iper-drammatizzato quasi ai confini della parodia, oltre a essere molto iterativo e quindi ripetitivo. Ogni volta che Adi e Rani compaiono nell’inquadratura il ritmo si abbassa fino a diventare glaciale, e il desiderio che la sequenza finisca il prima possibile si fa quasi insostenibile (oltre a venire spesso deluso).
È un peccato perché, come detto, le riflessioni sulla sperimentazione animale e sull’etica della ricerca che il personaggio si porta dietro sono interessanti; ma all’atto pratico l’intera storyline della coppia serve soprattutto perché porta avanti la mitologia della serie e comincia a dare alcune risposte alle domande che ci facciamo fin dal primo episodio. Da dove arrivano gli ibridi? Cosa c’entrano con la malattia? Dov’è finita la madre di Gus? La seconda stagione di Sweet Tooth fornisce risposte in dosi omeopatiche, ma sempre scelte con cura: abbastanza rivelatorie perché ne sia valsa la pena, ma ancora abbastanza oscure da lasciarci addosso molta curiosità per la terza stagione.
Gli ibridi
Ci sarebbe parecchio da dire sull’universo di Sweet Tooth, che questa seconda stagione ha già reso cento volte più interessante di quanto non fosse; parlare per esempio dei nuovi personaggi e futuri villain, la cui semplice presenza suggerisce l’esistenza, là fuori, di una società post-crollo alla Mad Max. La verità però è che le star assolute dello show, forse il vero motivo per cui Sweet Tooth non è solo una storia tradizionale per quanto ben confezionata, sono gli ibridi; e dopo una stagione passata in compagnia quasi esclusiva di Gus, questi otto nuovi episodi ci presentano anche l’intera famiglia (in senso Fast & Furious) di Aimee. E sapete una cosa? Sono adorabili.
Forse non è una vera categoria critica ma è difficile usare termini più precisi di fronte al bambino puzzola, alla bambina pappagallo, al bambino elefante e soprattutto a Bobby, il bambino talpa che ci regala uno dei momenti più alti dell’intera stagione. Gli ibridi sono il cuore di Sweet Tooth, e non a caso più di un personaggio ripete loro “questo mondo sarà vostro”: quello a cui stiamo assistendo nella serie sono gli ultimi rantoli del vecchio mondo, quello dominato dagli umani, che si sentono l’acqua alla gola e reagiscono nell’unico modo che conoscono – distruggendo tutto per fare tabula rasa e ripartire da capo. Non è una serie con un’alta opinione della nostra specie, questa Sweet Tooth: l’idea è che l’umanità come collettivo faccia schifo, e che il buono stia semmai nei singoli, nelle eccezioni. E quindi il passaggio di testimone agli ibridi è quasi una necessità, e non è un caso che siano tutti bambini, e quindi innocenti.
Almeno all’inizio, perché Sweet Tooth parla (anche) di perdita dell’innocenza, di crescere e di farlo quando non sei ancora pronto e ti meriteresti ancora qualche anno di pace infantile. Parla di perdita in generale, di lasciarsi le cose alle spalle e di crescere alla faccia della nostalgia. Parla di speranza e anche di lotta di classe e pure di psichedelia, sogni e visioni. È un universo ricchissimo e sfaccettato, e quindi prezioso e da proteggere – anche se tra poco dovremo dirgli addio per sempre.