Sweet Tooth (prima stagione): la recensione
Sweet Tooth è un'epopea fiabesca che azzecca tutto e si candida a diventare un nuovo punto di riferimento su Netflix
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Il più grande merito di Sweet Tooth è che ci ricorda che un mondo post-apocalittico può essere raccontato bene. E che ha ancora senso raccontarlo. Negli ultimi anni non si contano le storie ambientate dopo il crollo della civiltà, distopie che però fanno una fatica assurda a costruire mondi interessanti. Soprattutto, non riescono mai a descrivere davvero l'eccitazione della scoperta, la meraviglia e l'orrore di grandi scenari tornati terra di nessuno. Insomma, a recepire davvero la lezione di Mad Max. Sweet Tooth, invece, è una storia classica nel senso migliore che si può dare al termine. Un'epopea fiabesca nella tradizione del romanzo per ragazzi, che azzecca praticamente tutto e si candida a diventare un nuovo punto di riferimento per gli spettatori di Netflix.
Sweet Tooth non inventa praticamente nulla, ma fa esplodere la sua storia nell'incontro di elementi e strutture classiche del racconto che dimostra di capire benissimo. Ad esempio, c'è un rapporto umano forte che si sviluppa tra il bambino e Tommy Jepperd (Nonso Anozie), il suo compagno di viaggio. Visivamente la messa in scena gioca sul contrasto di proporzioni tra i due, che sono davvero "il gigante ed il bambino", come ad enfatizzare il senso di protezione attraverso la più grande distanza tra i due. Nel fare questo, si inserisce nella tradizione molto diffusa degli ultimi anni che vede il grande ed esperto cacciatore proteggere la giovane vita innocente, ma molto importante. Ricorderà The Mandalorian, ma – dato che si parla di post-apocalisse – non dovremmo affatto scordare The Last of Us e La strada.
Nel fare questo, Sweet Tooth fa propri canoni della narrazione fantastica più che di quella post-apocalittica. Anche appoggiandosi ad un casting molto riuscito, in cui spicca naturalmente Convery, ma nel quale ci sono anche la giovane Stefania LaVie Owen (Bear), Dania Ramirez (Aimee) e Neil Sandilands (Steven Abbott). Privo di quei colori smorti e di quelle sensazioni opprimenti, per raccontare la gioia di luoghi inesplorati, i colori del mondo, la meraviglia della scoperta, il ritorno della speranza.
Tutto questo è intervallato da flashback non meglio inquadrati che sono dedicati a personaggi diversi. Nessuna di queste storie è interessante e riuscita quanto quella principale, e in un paio di casi la sensazione di riempitivo c'è. Però arriverà come riscatto il finale di stagione, in cui con naturalezza tutto quel che abbiamo visto finirà per avere un senso. E darà più forza alle premesse della seconda stagione, che dovrà esserci.