The Sweet East, la recensione

Viaggio allucinato nel sottobosco degli Stati Uniti, Sweet East è un film cool come i suoi personaggi che vorrebbe deridere

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La nostra recensione di The Sweet East, presentato nella sezione Quinzaine des cinéastes del Festival di Cannes 2023

Che Sean Prince Williams abbia lavorato come direttore della fotografia per i fratelli Safdie, The Sweet East, suo esordio alla regia, lo rende chiaro fin dall'inizio. C'è il ricorso a una macchina a spalla che precariamente si muove nell'ambiente prediligendo i primi piani stretti, un'illuminazione giocata su colori accesi e luci al neon. Ma l'influenza dei registi di Good Time viene meno poco dopo, perché poi il film cerca una propria strada, più vicina al cinema di Sofia Coppola.

Lillian (Talia Ryder), una liceale della Carolina del Sud, parte con i suoi compagni per una gita scolastica a Washington che presto degrada in feste, droga e sesso sfrenato. Dopo aver perso il cellulare in un bagno di un locale, la ragazza si imbarca in un viaggio allucinato tra diverse sottoculture e sette degli Stati Uniti, incontrando personalità eccentriche e bizzarre.

Il film si compone dunque di una serie di capitoli poco concatenati tra loro, filmati attraverso una particolare grana delle immagini che richiama quella di un video amatoriale in presa diretta e un persistente commento musicale a tutto volume. La rassegna del sottobosco del Paese comprende un professore fascista e complottista (Simon Rex) che cerca di trasmetterle il suo amore per Edgar Allan Poe, una coppia di giovani registi ( Ayo Edebiri e Jeremy O. Harrische) che vede Lillian come la star del suo prossimo film, un giovane divo (Jacob Elordi) che la dà in pasto ai paparazzi, fino a monaci molto sui generis. Tutti contesti che The Sweet East descrive molto sopra le righe, beffandosi di qualsiasi movimento o rivendicazione che vuole dire la sua ma non fa altro che rivelare la propria insensatezza. A salvarsi è sempre e solo Lillian, ragazzina ben consapevole del suo fascino che non esita a concedersi a chi invece è riluttante (il personaggio di Rex, in un divertente gioco metacinematografico) che passa indenne e vincitrice da ogni situazione in cui si ritrova. Adottando il suo punto di vista, il film vorrebbe dunque dissacrare e smontare miti e credenze di un'intera Nazione, ma cade vittima del suo stesso obiettivo.

L'ambiguità dell'operazione consiste infatti nel modo in cui, se è evidente la satira sull'ambiente che rappresenta, allo stesso tempo The Sweet East propone una coolness ricercata simile a quella dei suoi stessi personaggi e una patina tipica di un certo panorama indie contemporaneo. Williams vorrebbe infatti essere preso molto sul serio, nel suo compiere una disamina socio-culturale che certamente non per la prima volta arriva sullo schermo. Il risultato è uno zibaldone di temi, riferimenti e citazioni mischiati tra loro in un vortice da cui si è travolti ma da cui, alla fine del viaggio, non rimane nulla di significativo. Nonostante inoltre la protagonista non sia certo un modello di rettitudine, c'è un forte moralismo nei confronti dei contesti rappresentati, uno guardo dall'alto che stona con quanto effettivamente vediamo: un film tanto velleitario quanto quello che racconta. E, come spesso accade, tutto questo si rivela limpidamente nell'unica scena che diverge dall'orizzonte complessivo, quella in cui per un momento la storia impazzisce e abbraccia un'anima trash finalmente divertente, che però è solo una parentesi isolata.

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