Sweet Dreams, la recensione | Locarno 76

Ha una strana visione dei locali Sweet Dreams, che contrappone colonizzatori e colonizzati usando il denaro come calamita di morte

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Sweet Dreams, il film presentato in concorso al festival di Locarno

Nell’Indonesia del 1900, colonia olandese in remissione, alcuni tra gli ultimi coloni vivono un mondo che non esiste già più, tra piantagione in crisi e decadenza. Quando il patriarca muore, l’unico figlio con moglie e bambino in arrivo, giunge in loco per raccogliere l’eredità. L’obiettivo è vendere tutto, chiudere con quel mondo, dismettere la piantagione piena di debiti e iniziare una nuova vita con i proventi della vendita. Si mette di mezzo il destino però, perché il patriarca ha una concubina e un figlio illegittimo al quale ha lasciato tutto. Inizia la guerra per il denaro.

Ena Sendijarevic ha scritto e filmato una storia di contrapposizioni. Ci sono gli olandesi, in abiti bianchi che vivono gli interni fingendo di essere in Europa. E ci sono i locali, a torso nudo, immersi negli esterni, nella natura indonesiana filmata per essere asfissiante, fitta e umida come già vista in Pacifiction. Come spesso avviene al cinema i ricchi hanno un rapporto represso e frustrato con il corpo e quindi con la sessualità, i locali che di beni materiali non ne hanno invece ne vivono uno più gioioso e fecondo. In mezzo si pongono la concubina e suo figlio, osteggiati dagli indonesiani come loro perché “si credono migliori di noi”, odiati dagli olandesi ai quali hanno sottratto l’eredità. I sogni dolci del titolo sono quelli che ognuno culla di realizzare con quel denaro e sono ciò che porta ognuno alla perdizione e alla violenza. 

Questa storia di latifondismo è una in cui i lavoratori appaiono molto più liberi dei padroni, schiavi del denaro che devono trovare a tutti i costi, schiavi dell’odio che questo genera (odio per la madre, odio per i locali, odio per la concubina e odio tra di loro). Non è proprio il massimo però lo sguardo di Ena Sendijarevic, che finisce per deumanizzare i locali, idealizzandone la purezza. In Sweet Dreams gli indonesiani sembrano spiriti della foresta, presenze eterne come le piante e in questo senso svuotate di umanità. Al contrario la concubina che si è avvicinata al sole del denaro, che veste alla occidentale e sogna di più per suo figlio, è l’unica di loro ad esprimere un carattere assieme alla corruzione che lo stare troppo vicino al capitale porta con sé.

Non hanno Sweet Dreams questi indonesiani che tutti deridono, che sembrano un’entità unica, una massa che sì muove e sta in silenzio tutta insieme, che sembra pensare la medesima cosa sempre. L’impressione è quasi che il film voglia affermare che il contrario della corruzione del denaro e dello sfruttamento necessario per ottenerlo, sia uno stato più vicino alle piante o alle rocce che all’umanità. Solo quelle persone che osano staccarsi da quella massa e agire per volontà propria hanno diritto ad una personalità, ma è sempre per desiderio di sottrarre denaro ad altri. E se non è certo meglio il mondo dei colonizzatori, una specie di calamita per la morte dalla prima inquadratura fino al finale apocalittico, completamente corrotto dalla ricerca del denaro perché solo con esso la loro esistenza sembra poter esistere, la contrapposizione colonizzatori/colonizzati sembra non solo manichea ma anche simile a quella tra civiltà e natura, modernità e passato, illuminismo e animismo come conferma un finale spiritualista.

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