Swan Song, la recensione

In un film altrimenti dimenticabile come Swan Song piomba un attore eccezionale come Udo Kier che lo dirotta verso il cinema

Critico e giornalista cinematografico


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Swan Song, la recensione

Più che un film un tutorial di sceneggiatura indie.
Swan Song sembra costruito seguendo un manuale, ma uno di quelli corti, sintetici, che vanno per sommi capi e assicurano i pochi consigli giusti per dare al vostro film un secondo livello di lettura di sicura presa che faccia sentire intelligente con poco sforzo il pubblico del cinema indipendente.
Pat vive in una casa di riposo, era un coiffeur, e viene richiamato in servizio dalla morte della sua cliente più ricca che nel testamento ha lasciato detto che sia lui a farle i capelli. Inizialmente rifiuta, ma l’evento lo spinge ad evadere dalla casa e tornare a girare per la sua città. In questo viaggetto di tappa in tappa (in ognuna delle quali Pat acquisisce un oggetto che lentamente lo trasforma nell’uomo che era), veniamo edotti sulla sua storia, il suo passato e la sua vita prima della casa di riposo. Tutto il film è un lungo processo di vestizione per recuperare traumi e identità perdute attraverso Sandusky la città in cui Todd Stephens (che il film lo scrive e dirige) è cresciuto e ambienta i suoi film..

Il film così com’è si sarebbe condannato da solo all’oblio in mezzo ad una folla di suoi simili da cui non sa distinguersi, solo che c’è Udo Kier.
Questo attore eccezionale con un numero spaventoso di film in carriera e alcune tra le prestazioni migliori che si ricordino, dotato di ironia, sensibilità e cinismo nella misura giusta, per una volta è protagonista e si carica il film sulle spalle. Quest’espressione (“si carica il film sulle spalle”) trova in lui e in Swan Song il senso che non ha mai tutte le altre volte che viene usata. Vedendo questo film si ha l’impressione che tutti gli altri film che qualcuno si è caricato sulle spalle in realtà fossero interpretati da attori presi per la strada.
In una guida breve a come si fa cinema indie piomba un attore immenso che decide di creare lui un film. Ed è un film bellissimo.

Kier ribalta e distrugge ogni piccolezza, lui è già il personaggio fatto e finito nella prima inquadratura, non ha bisogno di questa trita dinamica dell’abbigliamento, ha già i suoi traumi e ha già il carattere che avrà alla fine. Per il resto del minutaggio lo esplora. Non deve maturare niente, non ha bisogno delle piccole tenerezze da indie cinema, è un rullo compressore in ogni scena e ha deciso che questo film in realtà parla dell’invecchiare, del guardarsi indietro e osservare un mondo che non esiste più. Lo dice con ogni sguardo e cambiando l’enfasi delle battute. La regia va da una parte, lui da un’altra e noi siamo con lui.

E anche un finale conciliante oltre il tollerabile che chiude con la più deludente delle conclusioni (“dov’eri quando avevo bisogno di te?”), animato dal corpo immobile di Kier e dai suoi occhi chiarissimi diventa qualcos’altro, un momento di fierezza LGBTQI fuori da ogni canone e retorica, fieramente vecchio stampo ed edonista come il cinema gay cerca di non essere più. Il film ci dice che Pat vuole qualcuno che lo ricordi; Udo Kier ci dice che Pat vuole ricordare.

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