Suzume, la recensione

Non ci sono dubbi che Suzume sia il film più miyazakiano di Makoto Shinkai, tuttavia non trova quella combinazione di intensità e leggereza

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Suzume, il nuovo film d'animazione di Makoto Shinkai in uscita al cinema il 27 aprile

Un giorno, prima o poi, Makoto Shinkai farà un film fatto tutto solo di cieli e nuvole, sia stellati che assolati. E finalmente sarà contento. Perché è chiaro vedendo anche solo uno dei suoi film animati che è un regista visivo, a cui interessa la possibilità di disegnare qualcosa, una sequenza, un personaggio o una situazione e per poterlo fare intorno ci costruisce una trama, molto spesso sentimentale, tenera e quando va male proprio sdolcinata. In Suzume si tiene, scrive un personaggio protagonista delineandolo in modi essenziali ma con l’abilità di lasciare tutto quello che serve per renderlo complesso e interessante e alla stessa maniera scrive l’oggetto del suo interesse, un uomo misterioso che ha a che fare con cose magiche. Il resto della trama è un guazzabuglio intricato e inutile al tempo stesso. Ma loro due funzionano.

Suzume, è il nome della protagonista di una storia che non manca di originalità (almeno rispetto al resto dell’animazione, perché in realtà non è lontana dal resto della produzione di Shinkai) eppure delle sue minacce immense, giganti e terribili non riesce mai a trasmettere il rischio o l’importanza. Tutto il film rincorre un’idea di grandezza e leggerezza al tempo stesso senza trovare né la prima né la seconda ma accennandole. Capiamo cosa vorrebbe essere e cosa in certi ottimi momenti è, ma capiamo anche che non tutto il film riesce a tenere quel complicato tono che poi è quello di Hayao Miyazaki, evocato sia fattualmente (l’azione parte nella vera prefettura di Miyazaki e ad un certo punto la protagonista dirà “Mi sembra di essere in I sospiri del cuore”) che nei temi (natura, spiriti indomabili, il male dell’umanità, gattoni che compaiono di botto…).

Ma anche se c’è un gatto le cui dimensioni e il cui corpo cambiano se è benvoluto oppure no (come la protagonista di Il castello errante di Howl invecchiava o ringiovaniva a seconda del fatto che ci fosse più o meno amore nella sua vita) lo stesso quello strano equilibrio miyazakiano che tiene insieme i sentimenti più intensi con un tocco stranamente leggero e disimpegnato è lontano. Shinkai aveva avuto fortuna con storie sentimentali tempestose e nelle quali (come in questa) proprio l’amore di due persone tiene insieme fenomeni fantastici, Suzume vorrebbe applicare questa idea ad un’allegoria grandissima di un clamoroso fatto della storia recente del Giappone, ad un certo punto evocato chiaramente, vorrebbe essere la versione Shinkai dell’elaborazione di quella tragedia, ma è davvero troppo confuso e poco centrato per andare a segno. Una volta tanto forse sarebbe stato meglio concentrarsi sulla storia d’amore.

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