Suzhou River, la recensione

Uno dei migliori film cinesi degli anni 2000 e forse l'espressione migliore del cinema giovanile torna in sala

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Suzhou River, il film che torna in sala restaurato dal 14 luglio

Nel campo del cinema d’amori giovanili perduti pochi rivaleggiano con quanto realizzato tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei 2000 in Cina (Hong Kong inclusa, nonostante fino al 1997 non fosse parte della Repubblica Popolare Cinese). Se poi all’esagerato amore giovanile si aggiunge la capacità di contestualizzare queste forme sentimentali con l’influenza che ha su di esse la vita nelle metropoli moderne, gigantesche, molto dense e piene di persone dalle provenienze più diverse la cui vita non è radicata come i locali, allora davvero non c’è nessuno che abbia centrato l’obiettivo come i migliori film usciti da quell’area geografica lì. Nessuno. E se Wong Kar-Wai ha segnato il percorso (l’evoluzione della sua poetica dallo stile classico, quasi pedante, di As Tears Go By fino all’incontro con Christopher Doyle fino alla perfezione di Angeli perduti, è proprio una discesa in quello che sarà quel cinema lì da quel momento in poi) Lou Ye ne è stato forse il miglior interprete nella Repubblica Popolare Cinese. Suzhou River è il suo araldo.

Con esattamente quella punta svogliata di noir che sì trova anche in uno degli episodi di Hong Kong Express, Suzhou River racconta di un incontro criminale e poi, tempo dopo, di un secondo incontro con quella che pare la medesima donna ma (forse) non lo è. Non è l’ossessione di La donna che visse due volte (non c’è la trasformazione di una persona in un’altra per il piacere di un uomo), è il cercarsi in un luogo in cui le persone si perdono e le storie sembrano più facili da trovare degli esseri umani. Ambientato a Shanghai il film si apre subito con il fiume del titolo, navigando il quale il protagonista vede persone che rappresentano storie e possibilità. Quella del film sarà una di queste storie di incontri fugaci e strani che condizionano una vita intera, un continuo cercare di rivivere quei sentimenti, ritrovare quella persona, riagganciarsi a quella trama. 

Ma più in là di una trama pretestuosa arriva la capacità di Lou Ye di filmare l’essere giovani a Shanghai in quegli anni, bramosia, piccola rabbia e arroganza, il rapporto con gli altri, il desiderio sentimentale maschile, all’interno della cornice delle poche parole e molta difficoltà che caratterizzano il noir occidentale, qui slabrato e ricalzato per le esigenze dei registi della sesta generazione cinese, che (almeno nei loro primi) non volevano fare cinema sociale come i predecessori ma arrivare ad un’idea politica tramite storie personali (come Le biciclette di Pechino o Unknown Pleasures). Nelle grandi città cinesi gli amori sono quasi impossibili da realizzare perché sembra sempre che la folla, il caos, gli impegni, l’intrecciarsi di tante trame diverse complottino contro gli individui. Non è più il tempo il nemico (come nel melò classico, in cui il passare degli anni è la vera scure) ma lo spazio, che sembra fagocitare le persone e restituirle diverse (come il protagonista di Angeli perduti che quando si innamora diventa biondo).

Suzhou River è esattamente quel racconto lì, quello della Cina che cambia vista tramite le piccole persone perse dentro le grandi città, realizzato con una tale urgenza da dare l’impressione di essere stato scritto e girato in una settimana o poco più, così rude da sembrare girato di getto tutto insieme. Invece è vero il contrario, è messo in scena con una tale capacità di stare attaccato agli attori con la camera a mano e di valorizzarne volti, corpi e la loro innegabile attrattiva (al di là di identità, trucco e parrucco diverso) da costituire quello che tutti dovrebbero tenere a mente quando si parla di cinema giovane.

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