Suzanna Andler, la recensione I TFF 39

Suzanna Andler di Benoit Jacquot fatica a rendere evocative le parole, a costruire suggestioni o a elevare l'opera dal mero "teatro filmato"

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"Stai farneticando", dice ad un certo punto Michel (Niels Schneider). Una dichiarazione che vorrebbe evidenziare il punto di forza del film, ma che finisce per diventare manifesto della sua inconsistenza. Siamo in un’elegante casa affacciata sulla Costa Azzurra, dove lui, l’amante, sta discutendo con Suzanna Andler, donna sposata di mezza età giunta lì per decidere se acquistarla, interpretata da Charlotte Gainsbourg. Il marito (Nathan Willcocks) la tradisce da tempo, ed ecco allora che la relazione con Michel potrebbe essere occasione per ritrovare la libertà perduta, ma il richiamo della vita borghese pare ancora troppo forte… L’intreccio si sviluppa in quell’unica location nell’arco di una singola giornata, attraverso fitti dialoghi con al centro l’amore e il tradimento, la menzogna e la verità, il richiamo del passato e l’orizzonte di un futuro sempre progettato e mai realizzato.

Il film adatta un testo teatrale di Marguerite Duras, che il regista, Benoît Jacquot, da tempo voleva trasporre su grande schermo. Il discorso sulla memoria e le atmosfere richiamano quelle tipiche dell’autrice di India Song, delle quali però Suzanna Andler non è che versione annacquata. Il mare sulla riva, di cui sovente sentiamo i flutti, le sinfonie di flauti in sottofondo, la casa chiusa dal resto del mondo diventano spazio mentale della protagonista. Il clima è sospeso: sovente il paesaggio è fuori fuoco per far risaltare in primo piano i personaggi e staccarli dal resto. Presupposti per sondare l’interiorità di Suzanna e rilevarne la complessità, la sofferenza che traspare a fatica dall’atteggiamento che vorrebbe comunicare solo indifferenza. Charlotte Gainsbourg aggiunge dunque un altro tassello alla sua galleria di donne dalle relazioni tormentate: occhi sovente rivolti verso il basso, volto che porta su di sé i segni delle cicatrici dell’anima. Una rappresentazione che vorrebbe farsi esemplare di una condizione femminile, ma scade nella banalità.

A Jacquot infatti manca la capacità di rendere evocative le parole, di costruire suggestioni o di elevare l'opera da una sensazione di "teatro filmato". I lunghi dialoghi e gli arrovellamenti dei protagonisti restano sulla superficie, senza sostanza effettiva, così che non riusciamo mai ad entrare in sintonia con loro. L’obbiettivo era dare forma all’abisso in cui verte la protagonista, le contraddizioni nelle sue stesse dichiarazioni, le spinte contrapposte che la immobilizzano. Eppure tutto ci appare vuoto e inconsistente: più l’inquadratura si avvicina al suo volto, più ci sembra distante. La macchina da presa si muove docilmente all’interno delle stanze, evocandone il senso di chiusura, la luce del sole crea ombre sulla sua pelle, ma l’effetto è quello di una patina estetizzante. Jacquot cerca un’eleganza formale nell’ambientazione e nella messa in scena, che però stride con le atmosfere: quello che vorrebbe essere vibrante, è solamente rigido. Così, quando nel finale tutto si riduce a un botta e risposta a colpi di "ti amo" e di (sulla carta) scioccanti rivelazioni, ci sembra di assistere a una soap opera, a niente di più che a un battibecco tra nevrotici amanti.

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