Suspicion (prima stagione), la recensione
Sorretta da un cast azzeccatissimo e da un ritmo incalzante, Suspicion non rinuncia alla tentazione di un possibile prosieguo
A scanso di equivoci, è bene precisarlo subito: Suspicion non ha nulla di rivoluzionario. Si muove sicura su binari già percorsi da mille altri racconti, con una regia che non osa prendere mai il sopravvento sulla scrittura. Le non poche scene d’azione sono perfettamente orchestrate, ma la sobrietà britannica resta ben lontana (fortunatamente) da qualsiasi spettacolarità hollywoodiana.
Quattro piccoli inglesi
Il dramma prende il via con il rapimento a New York di Leo Newman (Gerran Howell), figlio dell'affarista Katherine (Uma Thurman), da parte di un gruppo col volto coperto da maschere della famiglia reale britannica. Gettate le basi del mistero, Suspicion sposta subito il focus sulla caratterizzazione dei principali sospettati del crimine: quattro cittadini inglesi che nulla sembrano avere in comune, se non un breve soggiorno nella Grande Mela proprio nel giorno della scomparsa di Leo.
A tal proposito, un plauso va ai vividi ritratti regalatici dal gruppo di attori protagonisti. In un puzzle di tinte contrastanti, i loro caratteri colpiscono senza dover ricorrere a facili cliché. Non si illuda lo spettatore di arrivare a fine stagione conoscendo a menadito questi insoliti sospetti: Suspicion ha l'intelligenza di omettere sempre il superfluo. Per una serie basata sul mistero, il labor limae è strumento necessario al mantenimento della tensione prima ancora che vezzo artistico.
Maschere
Al di là delle singole peripezie dei nostro scalcinati eroi, l'elemento di interesse primario in un'opera tradizionale come Suspicion sta nella gestione della dicotomia verità-finzione. Sin dall'inizio, a Katherine Newman viene chiesta solo una cosa in cambio della liberazione di Leo: tell the truth. Di' la verità. Sarà questo il leitmotiv non solo della campagna mediatica portata avanti dai rapitori, ma anche delle interazioni tra i quattro sospettati, incapaci di fidarsi l'uno dell'altro eppure arroccati nella propria recalcitranza a confessare le proprie frottole.
Quale verità ultima si celi in fondo al tunnel è, tutto sommato, una questione di secondaria importanza: ciò che conta è il viaggio che questa ricerca richiede, costellato a sua volta di bugie scoperte ed esposte. In una continua sovrascrittura di vero e falso, Suspicion procede rivelando via via tutte le menzogne raccontate dai suoi personaggi. Non è quella del Principe Carlo o della Regina Elisabetta la prima maschera: è, piuttosto, quella dell'innocenza, sfoggiata con disinvoltura da tutti i protagonisti.
Nessuno è innocente in un mondo in cui la realtà vive distorta dallo schermo di uno smartphone, sembra volerci dire la serie. Che si tratti di un filtro su una foto, di fake news o di semplici commenti atti a insinuare voci di corridoio: tutto concorre a portare avanti una bugia collettiva di cui ognuno di noi è, almeno in minima parte, colpevole.
Scatole cinesi
Non senza forzare un po' la mano, la serie raggiunge il proprio apice in un finale che ne esalta pregi e debolezze. A sottolineare l'assenza di buoni e cattivi, la realtà viene fino all'ultimo veicolata dalla contraffazione. Lungi da noi voler togliere al lettore il piacere di scoprire Suspicion passo dopo passo: ci limiteremo quindi a elogiarne l'efficace (seppur non innovativa) struttura a scatole cinesi, in cui ogni supposta verità raggiunta si rivela essere falso contenitore di nuove rivelazioni.
Sorretta da un cast azzeccatissimo e da un ritmo innegabilmente incalzante, questa prima stagione non rinuncia alla tentazione di un possibile prosieguo; alla luce della promozione che si è guadagnata senza troppi rischi, restiamo in attesa che ci vengano raccontate nuove, succulente bugie.