Supersex, la recensione di tutti gli episodi

Dentro Supersex ci sono due tipi di serialità e due tipi di racconto di qualità diverse che non riescono mai a fondersi a pieno

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Supersex, la serie di Netflix con Alessandro Borghi che racconta l'ascesa nel porno di Rocco Siffredi

Ci vogliono tre episodi perché Supersex cominci a ingranare, ci vuol cioè che Rocco Antonio Tano, che seguiamo da quando è bambino, scopra il sesso, viva la morte del fratello, si innamori di una ragazza più grande che sta con uno dei suoi fratelli, e infine scappi via a Parigi proprio con questo fratello e gradualmente finisca nel mondo del porno diventando Rocco Siffredi. In quelle puntate la serie sembra innamorata di cose che in realtà sono ben poco significative, usa la debolissima metafora del superpotere, parla di un forte desiderio di andare via ma è anche densa di enfatiche scene madre che non sono mai davvero scene madre, piena di bambini che parlano per sentenze da adulti. Tutto quello che di solito chiediamo di non fare alle serie più sofisticate.

Invece quello che accade dopo è che il racconto prende un’altra marcia. Il mondo del sesso, che poi è anche quello delle sessualità alternative, è l’ambiente che gli è più congeniale e anche i dialoghi diventano più sensati, la recitazione funziona bene e Supersex comincia a fare quello che era lecito aspettarsi: utilizzare una persona completamente diversa da tutte le altre che si possano raccontare, dotata di un conflitto completamente diverso dal solito, per dire qualcosa che anch’esso sia diverso. Questa è una storia di atteggiamenti maschili, di relazione con le donne come è tipico dei nostri anni, ma anche una che mette in relazione la pulsione più primordiale possibile con la sua soddisfazione più estrema.

Uno dei momenti migliori lo si vede nel quarto episodio, durante una festa in cui Rocco Siffredi è immerso in sessualità alternative per la prima volta nella sua vita e gli viene chiesto di manifestare la sua competenza. C’è lì un’aria astratta e Borghi recita la totale assenza del personaggio in un momento in cui invece fisicamente esprime il massimo della presenza. Come se Siffredi guardasse tutto da fuori e fosse sballottato dagli eventi invece che guidarli. Capiamo che a guidarlo è il desiderio sessuale, “l’animale”, come lo chiama lui, una forza primordiale a cui anche nelle puntate successive si abbandona per trovare il successo e tutto quello che desiderava uscito da Ortona.

Gradualmente lungo la serie quella che è una benedizione e un’eccellenza diventa una maledizione, Rocco Siffredi passa da dimostrazioni di potenza, come la sfida a venire in 10 secondi vinta guardando fisso negli occhi un altro personaggio, ad altre di uguale potenza ma segno opposto come quello che avviene al funerale della madre. Nel complesso quella storia lì, quella della relazione con il sesso, è la storia dell’emancipazione da un’idea di uomo e quindi anche della creazione di un diverso rapporto con le donne. Uno che culmina con l’arrivo dell’attuale moglie, che a prescindere da quanto possa essere una concessione alla realtà, è il momento recitato meglio, quello in cui di colpo entra una grazia che stupisce per quanto sia reale.

Tutto il contrario di ciò che accade quando la serie prosegue la parte di trama che lega Rocco Siffredi al mondo di Ortona, quello da cui viene la sua visione dei rapporti tra uomini e donne. Specialmente quando è in ballo il fratello che la serie ha creato appositamente, quello interpretato da Adriano Giannini. Lui rappresenta il demone di un modo di essere maschio, la versione estrema del machismo da cui è inizialmente affascinato ma da cui poi prende le distanze. È una parte piena di eventi e svolte che non trova mai pace, si agita tantissimo ma sempre male, sempre confezionando rapporti nella stessa maniera e con le stesse parole del resto delle serie meno inventive, di fatto svilendo tutto.

All’interno di questi contrasti si muove Borghi, che usa un ghigno rubato al vero Siffredi come sineddoche di tutto un modo di essere. Non lo imita ma gli ruba solo quella smorfia con la quale fa molto, ci fa l’imbarazzo, ci fa momenti di umorismo e ci fa l’essere un po’ pesce fuor d’acqua di Rocco Siffredi in certe situazioni. È una piccola soluzione che crea dinamismo e spesso risolve momenti terribili. Tuttavia forse proprio quando di colpo quel ghigno alleggerisce le scene viene da pensare che questa serie avrebbe avuto più bisogno di un tipo di racconto che abbracciasse il grottesco del mondo di cui parla. È difficile non immaginare che forse una versione in forma di commedia di questa storia sarebbe riuscita a dire di più e avrebbe coperto meno, avrebbe avuto meno velleità e più concretezza intimista. Questo perché non solo Borghi è molto bravo nel centrare il tempo comico e un tono giusto, che non prenda in giro ma sappia ridere di sé, ma proprio la storia è di quelle che potevano essere elevate dall’umorismo.

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