Superman Returns - Articolo del 12 luglio 2006 - 1713

Dopo cinque anni di assenza, Superman torna sulla Terra, ritrovando Lois con un figlio e Lex Luthor impegnato in un altro piano criminale. La pellicola di Bryan Singer delude fortemente da tutti i punti di vista, a cominciare dalla storia e dal cast...

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Non sono mai stato un grande appassionato di Superman. E non tanto perché, a livello razionale, non ho mai potuto accettare che possano bastare un paio di occhiali per non notare la differenza tra un supereroe ed un cronista. Credo che in realtà il problema vero siano i limiti molto stretti per le sue storie. Infatti, proprio perché l’uomo d’acciaio è praticamente invulnerabile, è quasi impossibile porre degli ostacoli efficaci sul suo cammino. A meno di non mettere in gioco la solita kryptonite, l’unico materiale che gli crea dei problemi e lo rende debole. E’ evidente che la formula “cattivone si impossessa della kryptonite e la utilizza contro Superman” è diventata quasi obbligatoria, dando una fortissima sensazione di dejà vu ad ogni nuova storia.

Eppure, i film degli anni settanta-ottanta mi erano piaciuti. Se reputo l’originale di Richard Donner molto carino, il secondo (dove era subentrato Richard Lester) è sempre stato il mio favorito, probabilmente per il suo mix di umorismo fantastico (le migliori battute della serie sono lì) e di cattivi all’altezza dell’uomo d’acciaio.

Superman Returns, invece, è un film frutto della paura. Paura di scontentare i fan, paura di sembrare poco rispettosi verso le pellicole originali, paura di offendere la memoria di Christopher Reeve e paura di gestire più di 200 milioni di budget (per la precisione 260, se consideriamo anche le spese prima dell’arrivo di Bryan Singer). Il risultato non può che essere un prodotto mediocre, senza grandi vette, né a livello di storia e di immagini, né per quanto riguarda gli interpreti. E i danni collaterali di questa situazione sono due, entrambi decisamente gravi.

Singer, ormai, si prende troppo sul serio e questo aspetto è chiarissimo nella pellicola. Abbiamo veramente bisogno di eroi o di qualcuno che sia meno distante da noi? Qual è il ruolo della stampa nella nostra società? Tutto argomenti interessanti, ma che in un film del genere diventano fin troppo pesanti, anche per un’esposizione che li sottolinea eccessivamente.
E poi, qualcuno dica al regista che siamo nel 2006. Abbiamo capito che adora i primi due film originali, ma se l’obiettivo fosse stato quello di proseguire direttamente su quella strada, allora tanto valeva richiamare in azione Richard Donner, che, oltre ad essere vivo e vegeto, è ancora impegnato nel mondo del cinema.
Perché si può anche accettare (senza entusiasmo) l’idea di riutilizzare le vecchie musiche di John Williams, che sono ormai entrate nella storia, così come le immagini di repertorio di Marlon Brando. Ma bisogna per forza prendere un attore che sembra il figlio segreto di Christopher Reeve? O citare le pellicole originali in continuazione, anche nei piccoli dettagli?

Ma non c’è da preoccuparsi, anche gli errori ‘originali’ non mancano. A cominciare dal triangolo amoroso, in cui il terzo incomodo (un James Marsden decente, in un ruolo decisamente ingrato) è una persona squisita e che rende lo spettatore assolutamente confuso. Per chi tifare, per il nostro eroe in calzamaglia o per l’uomo comune, decisamente più vicino a noi comuni mortali? Se poi Singer attende più di un’ora e mezzo per tirare fuori la sua rivelazione sentimentale dal cilindro (che però non sorprende nessuno), ecco che la situazione diventa inutilmente complessa.
E che dire del finale, che è uno dei più stupidi mai visti in un prodotto del genere? La riscossa del supereroe non è assolutamente soddisfacente (molto meglio sarebbe stato utilizzare la scena in cui Superman torna in azione), mentre la pellicola si dilunga poi per un’altra ventina di minuti. E la fortissima impressione è che Singer abbia voluto fare una sorta di introduzione, come capitato per il primo episodio di X-Men. Ma, a parte le differenze qualitative, questo film dura quasi un’ora in più e la differenza si sente tutta.

E poi, potrà sembrare un’eresia, ma Singer è tutt’altro che un regista d’azione. Anche i due capitoli delle avventure dei mutanti, a mio avviso, erano più interessanti per i momenti intimisti che per le scene movimentate (soprattutto nel secondo, in cui si abusa di questi momenti), per non parlare del suo lavoro più raffinato in Public Access, I soliti sospetti e L’allievo. Qui, in realtà, di azione non è che ce ne sia molta. Dopo la spettacolare scena aerea dell’inizio, passa un’ora e un quarto prima che l’uomo d’acciaio sia di nuovo impegnato (escludendo qualche intervento di ordinaria amministrazione, tra cui quello visto nel trailer, con la pallottola che si frantuma nell’occhio). E, guarda caso, i più momenti più intimisti (Lois Lane sull’aereo in assenza di gravità, Superman che vola da solo) sono i migliori.

E veniamo al cast. Di tutti gli attori, Kate Bosworth è stata sicuramente quella più bersagliata dalle critiche. Immeritatamente, a mio avviso, e non certo perché all’improvviso sia diventata Katharine Hepburn. Semplicemente, in un ruolo non facile, se la cava degnamente, a parte un’unica caduta di tono (quando dice a Superman “sei ferito”, con una voce decisamente fuori luogo per l’occasione). Più che altro, ci si chiede quale sia il senso di assegnare un premio Pulitzer al suo personaggio, scelta poco credibile (considerando l’età) e che peraltro risulta assolutamente inutile nel corso della storia. Comunque, il vero problema della pellicola sono i due protagonisti maschili.
Brandon Routh, semplicemente, non sa recitare. Aggiustarsi gli occhiali in continuazione (come faceva Reeve, a proposito di scopiazzature del passato), non basta certo per convincerci che un uomo possa veramente volare, soprattutto se questo risulta così poco naturale in ogni sua espressione (che sia eroismo o goffaggine).
E anche Kevin Spacey non va al di là dei classici stereotipi del cattivo che ascolta musica classica e che ha piani magniloquenti per cambiare il mondo (anche se si circonda di un gruppo di incapaci, degni dell’Armata Brancaleone). Difficile poi dire se certi istrionismi (quelli che abbiamo visto nel trailer, in cui urla in faccia a Kate Bosworth) siano da addebitare maggiormente a lui o al regista. Di sicuro, è difficile capire perché si arruola un’attrice notevole come Parker Posey, per poi sprecarla così miseramente (a meno che, come probabile, le sue scene non siano state tagliate al montaggio per motivi di tempo).

E a proposito di montaggio, ogni tanto ci sono errori pacchiani, con scene che durano quel mezzo secondo di troppo che rende tutto poco credibile. Anche qui, impossibile dire se Elliot Graham e John Ottman abbiano svolto un lavoro mediocre o se siano state le riprese ad essere pessime.
Per il resto, i pochi elementi interessanti non sono stati sfruttati degnamente. Poteva essere una buona idea approfondire la personalità di Superman (che salva le persone, ma che ha problemi di socializzazione con loro, come nella scena con Parker Posey). E le ‘vecchie glorie’ sono decisamente più piacevoli da vedere dei giovani (uno sguardo di Eva Marie Saint o la battuta di Langella sugli Oscar, da soli, valgono di più dell’interpretazione complessiva dei protagonisti).

Singer forse avrebbe dovuto prendere esempio da Christopher Nolan, che con Batman Begins ha tirato fuori qualcosa di nuovo dal personaggio, concentrandosi su un aspetto che non era mai apparso prima sullo schermo. E poco importa se i risultati immediati non sono stati all’altezza, perché mentre la pellicola con Christian Bale ha soddisfatto gli appassionati e conquistato nuovo pubblico (come dimostra la sua buona tenuta durante le varie settimane di sfruttamento in sala), spingendo la Warner a finanziare il sequel, questo Superman Returns rischia seriamente di non vedere un secondo capitolo. Per fortuna…

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