Super 8 - la recensione
Per i nati nei primi anni '70, Super 8 è la dimostrazione che il loro cinema non è morto. Per gli altri, è la prova che c'è una vera alternativa ai franchise fracassoni...
Nell'anno di santificazione di Steven Spielberg come Esopo della postmodernità arriva, dopo Paul, il secondo film che celebra la poetica cinematografica del papà della favola moderna e dell'alieno buono E.T.
Proprio il pupillo di Spielberg, J.J. Abrams, è alla regia; l'ambientazione è metà anni '80 in una cittadina di provincia dell'Ohio, e sulle Bmx troviamo “bambini ordinari in situazioni straordinarie”, parafrasando la battuta che era anche la dichiarazione d'intenti di Incontri ravvicinati del terzo tipo. E come in quel capolavoro, il fantastico che viene dallo spazio non scavalca mai la potenza narrativa di eventi totalmente terrestri come lutti, difficoltà di comunicazione padre figlio, rapporti di forza all'interno di amicizie ancestrali e la sostituzione della compagnia virile con una ragazza che, incredibilmente, ci sta.
Adolescenti e adulti, padri e figli, militari e scienziati. Se Transformers vede il punto di vista del regista concentrarsi, nella seconda parte, nei confronti della creatura fantastica e dei suoi turbamenti interiori, nel caso di Super 8 Abrams usa l'alieno come puro pretesto, spesso fuori campo, per far compiere un percorso psicologico preciso ai suoi personaggi. Da questo punto di vista Super 8 è l'opposto di Cloverfield. Niente horror in diretta visto dal punto di vista di uno scemone digitalizzato, ma un film vecchio stile visto in terza persona con mille rifrazioni della luce in campo e tante facce che guardano in alto verso il cielo o qualcosa di altrettanto maestoso, spaventoso ed impescrutabile.
C'è molta ironia, citazionismo cinematografico mai fine a se stesso (chi capisce le allusioni a Romero capisce, chi non capisce non fa niente), attori freschi. Il piccolo eroe Joel Courtney è quasi uno sconosciuto agli spettatori, molto visto (soprattutto in tv) è invece il papà poliziotto stakanovista Kyle Chandler. Piace molto il piccolo regista corpulento Riley Griffiths, sempre alla ricerca delle “production values” che si trovano nella vita (un treno in corsa nella notte, un gruppo di militari in un giardino) cui attaccarsi parassitariamente per fare cinema. Toccante una scena alla fine dove c'è l'eroe, l'oggetto da cui lui non si separa mai e una scelta drammatica che segna la sua definitiva, anche se dolorosa, maturazione. Elle Fanning? Bravissima. Potrebbe diventare una nuova Laura Linney. Sarà entusiasmante vederla crescere con la sorella Dakota. C'è poi un attacco divertentissimo alle droghe leggere: se fumate non vi godete lo spettacolo! Per un figlio di Spielberg è la cosa peggiore che ti possa capitare.
Concludendo: Super 8 non può essere quel film che abbiamo visto a otto anni e che ci ha cambiato per sempre (E.T.). Ma per i nati nei primi anni '70 sarà un'esperienza bellissima vedere che il loro cinema non è morto. Per gli altri sarà la prova che c'è un'alternativa ai franchise fracassoni stile Transformers che non vogliono colpire il pubblico quanto piuttosto stordirlo. Quel furbacchione di Spielberg, per non sbagliarsi, produce sia il film di Bay che quello di Abrams. Non sapendo quale delle due favole sia più attuale, fa i soldi con entrambe.