La recensione di Suncoast, il nuovo film diretto da Laura Chinn, in streaming su Disney+ dal 9 febbraio.
Ultimamente gira in rete un’intervista di
Rick Rubin, storico produttore discografico di
Run DMC e
Red Hot Chili Peppers, che dice una cosa utilissima per capire un film come
Suncoast: non è cercando di interpretare i gusti del pubblico che arrivi a conquistarlo; è facendo quello che senti in modo autentico. Più si è fedeli a sè stessi più paradossalmente si riuscirà anche a toccare le corde degli altri. C’è una scommessa simile dietro il primo film di
Laura Chinn, già ideatrice e protagonista della sitcom
Florida Girls (2019). Una vicenda autobiografica raccontata con tanto trasporto da schivare tutte le trappole retoriche che potrebbero ostacolarne il cammino, raggiungendo quel nucleo di sentimenti universali in grado di connettere autrice e pubblico. Si arriva a fine film con l’impressione di aver conosciuto delle persone vere, a tutto tondo, e che le lacrime che rischiano di sgorgare siano meritate anzichè estorte a forza di clichè.
2005. Il fratello di Doris (Nico Parker) è agli ultimi stadi di una malattia terminale che l’ha ridotto in stato vegetativo. Quando sua madre (Laura Linney) decide di trasferirlo in una clinica, la ragazza deve dividere il suo tempo fra gli amici del liceo e l’ospedale. Qui conosce Paul (Woody Harrelson) manifestante cristiano che si batte per impedire che a una paziente venga staccata l’alimentazione artificiale. Chinn ha detto di essersi ispirata a fatti reali della sua adolescenza, quando suo fratello fu trasferito nella stessa clinica dov’era ricoverata Terri Schiavo, protagonista di uno dei più celebri dibattiti americani sui temi dell’eutanasia e del fine-vita. Se non fosse tutto vero sembrerebbe quasi troppo: malattia, morte, madri single che si barcamenano cercando di non farsi sopraffare dalla disperazione. Il tutto condito da un dibattito filosofico che si svolge letteralmente sullo sfondo, aprendo la porta a facili slogan o riflessioni spirituali.
Con simili premesse è ancora più ammirevole la capacità di
Chinn di tenere i toni bassi, al riparo sia dal manifesto politico che dal
lacrima movie. A interessarla non sono i bilanci etici ma la possibilità di calarsi nei panni di tutti i personaggi, arrivando a comprenderne le ragioni anche quando sembra più difficile entrarci in empatia. La aiuta un cast in stato di grazia, fra cui spicca a sorpresa la prova asciutta e perfetta di
Parker. La sua Doris è un personaggio sfaccettato, più che convincente nel mettere a nudo i dilemmi di un’adolescente che attraversa una simile prova di maturità. Adulta-bambina contesa fra due mondi, quello spensierato delle amicizie e dei primi amori e quello terribile delle responsabilità e della morte, serve un’attrice veramente grande per non perdere neanche una sfumatura di questo ritratto. Dopo appena tre film è già chiaro che si tratta di un talento speciale.