Sulle ali dell'onore, la recensione

La missione di Sulle ali dell'onore è chiara e nobile, ma lo stile scelto è il più difficile e per nulla padroneggiato dal film

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Sulle ali dell'onore, il film di Prime Video sul primo pilota afroamericano dell'esercito statunitense

Ci vuole un’altra pasta, un’altra tecnica e un altro stile per fare un film come quello che Sulle ali dell’onore vuole essere. Non basta una sceneggiatura tarata correttamente per far coincidere alcuni elementi della vera storia e delle vere persone raccontate, con tutti gli archi narrativi e i luoghi comuni del cinema americano. Non bastano nemmeno le ambientazioni e gli effetti visivi giusti per quel tipo di storia. Non bastano le interpretazioni corrette e per quanto possa sembrare incredibile non basta nemmeno un buon montaggio invisibile. Sulle ali dell’onore vuole essere un classico, un vero grande classico, e per riuscirci e potersi permettere questi altissimi livelli di convenzionalità serve un’altra mano. Ma proprio tutta un’altra.

Questa è la storia di patriottismo e fatica, quindi puramente statunitense, del primo aviatore afroamericano ad essere stato decorato, morto in azione, e considerato una figura pionieristica per come si era fatto strada tra i ranghi militari negli anni ‘50, periodo in cui gli afroamericani erano largamente malvisti. Questa storia senza una regia più che esperta, capace di ottemperare agli obblighi di intreccio e di genere con il minimo sforzo e il minimo del minutaggio indispensabile, e nel frattempo in grado di muoversi tra le pieghe di questa narrazione per dire tutt’altro (quello che gli preme), leggere il proprio tempo e in controluce il ruolo stesso nel cinema all’interno di un sistema come quello narrato, è niente. È cinema televisivo della specie più antica, e quindi peggiore.

Sulle ali dell’onore vorrebbe realizzare la missione stessa del cinema hollywoodiano classico, cioè mettere una tecnica sopraffina al servizio di un’ideologia, non farsi schiacciare dalle proprie finalità e dalle proprie posizioni (nei confronti del paese, dell’esercito ma chiaramente nei confronti del razzismo) e anzi dominarle e irregimentalrle come farebbe Steven Spielberg o come avrebbero fatto Wyler e Hawks, attraverso la maniera in cui padroneggiavano (o padroneggiano) ma la messa in scena. Ma è così evidente che non ne sia in grado J. D. Dillard da farsene dominare, come un qualsiasi scarso regista di propaganda, uno di quelli che pensano di usare le immagini per mettere la luce su un’idea e invece sono le immagini che loro stessi generano a svelare qualcosa su di loro, la superficialità della loro ideologia e la smaccata parzialità della loro mentalità.

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