Sulla stessa onda, la recensione
Non ci si commuove, non ci si strugge né si crede al sentimento tra i protagonisti di Sulla stessa onda
È tutto uno svenire in Sulla stessa onda: sviene lei perché malata, svengono gli amici fatti in discoteca (o meglio, collassano), lo svenimento per mandare avanti una trama a cui la durata del film sta decisamente troppo larga e che per riempire quelle due ore si fa aiutare dai paesaggi e dalle gare di vela. Non il massimo per una storia adolescenziale di sentimenti e malattia. L’idea è che lei, Sara, gran passione per la vela, ha la distrofia muscolare, malattia degenerativa irreversibile. Lui, Lorenzo, pratica la vela a livello agonistico. Si conoscono, scatta l’amore ma il male procede e complica tutto. Come sempre, la vicinanza alla morte, il senso d’imminenza della fine di tutto è la miccia che accende il sentimento e fa percepire il desiderio di vita.
Ovviamente l’idea in sé è buona e giusta, un film adolescenziale con malattia, per giunta ambientato in Sicilia che è una regione che il nostro cinema frequenta poco e quando lo fa è sempre per le solite ragioni: terra di poliziesco o di paesi rimasti all’800, di tradizione e non di un racconto adolescenziale moderno come questo. Ma troppo pavida davvero è la realizzazione, che guarda molto alla serenità della messa in scena da reti generaliste e non vuole mai avere un carattere marcato, una cifra distintiva o anche solo la capacità di creare personaggi che possano incidere, stupire, imprimersi nella memoria. Ancora più grave, non è mai sufficientemente deciso a commuovere. Farsi notare non sembra un desiderio del film, come non sembra esserlo quello di insistere sul sentimento con forza, come non sembra esserlo quello di puntare davvero sul dramma. Ci si chiede quale dovesse essere nei piani originali il punto di forza di Sulla stessa onda.
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