Suite francese, la recensione
La seconda parte di un'opera mai completata diventa un film completo e interessante, Suite francese non somiglia agli altri film a tema nazismo
La storia è un melò di ambientazione bellica, pensato nella Francia di provincia in cui i tedeschi mantengono l'ordine con pugno di ferro e in cui una ragazza il cui marito è al fronte (ma vive con la nuora) si innamora di un ufficiale nazista, più gentile della media che in lei vede una sua simile, qualcuna con interessi intellettuali, idee e passioni vicine alle sue.
La cosa più forte di Suite francese è come dipinga un piccolo mondo provinciale dall'atteggiamento schizofrenico nei confronti degli occupanti. Odiati e temuti eppure amati nella notte (non solo la protagonista ha rapporti con gli occupanti ma diverse donne trovano in loro gli uomini che la guerra gli ha sottratto), ritenuti inferiori rispetto ai francesi ma mai quanto i connazionali villici, i nazisti di questo film non sono peggiori delle persone che comandano. C'è quindi un assurdo filo che lega Suite francese, nella versione di Saul Dibb, a Fury, il film di David Ayer: qui il melò, là il film di guerra, generi opposti con ritmo e piacere per la violenza opposte ma entrambi provincialmente francesi e determinati a mettere in luce l'identità di nazisti e alleati nel momento in cui si concretizza la guerra (la dominazione e la resistenza).
Se in Fury l'identità è questione di atteggiamento di fronte alla morte (non importa chi siamo, importa come la guerra ci ha cambiato e tramutato in macchine di onore e coerenza), in Suite francese sta tutta nella vigliaccheria. Ad esserne immuni sono solo i due protagonisti e non si può negare l'abilità di Dibb nel mettergli intorno un piccolo inferno che dia risalto ai loro momenti di intimità, quelli in cui sembrano Bella e Bestia in un mondo allo sfascio.
Poteva finire malissimo questa storia, cioè nella banalità, invece la mancanza dei successivi capitoli le dona una chiusa in media res che lo avvicina all'irrisolutezza della vita vera.