Succession (seconda stagione): la recensione
Alla seconda stagione Succession si conferma un drama inafferrabile: tragedia umana, soap opera, grande racconto della contemporaneità
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Per capire il linguaggio e la filosofia stessa alla base di Succession si può partire anche dal contesto dell'ultimo episodio della seconda stagione. C'è uno yacht lussuosissimo che diventa ambientazione chiusa che definisce e intrappola i personaggi stessi. Fanno parte della stessa famiglia, si stanno godendo una pausa rilassante, per quanto possibile, per staccare da una crisi che sembra alle spalle. All'improvviso il contesto muta, si scopre che uno di loro, non si sa chi, è sacrificabile. Il patriarca Logan Roy è l'assassino senza arma, che deve solo emettere la sentenza. C'è ironia, ansia, dramma, ma c'è soprattutto la capacità di modellare tutto questo in un racconto stimolante e avvincente.
Per tutti loro rimane l'esigenza di ripensare continuamente all'eredità di un impero editoriale forse in crisi. Il tutto mentre devono difendersi dalle ripicche reciproche e dalle minacce esterne, compresa un'inevitabile e molto contemporanea inchiesta su episodi di molestie con tanto di audizione di fronte ad una commissione. Succession è il presente, è l'altra faccia della crisi, è la copia riconoscibile di immagini e linguaggi ormai quotidiani. Ma, per tornare all'inizio, ciò che lo rende davvero molto valido è il piglio tragicomico, o meglio ancora farsesco, con cui narra se stesso. Tale è l'imbarazzo umano in certi momenti di fronte all'inadeguatezza dei personaggi, che alcuni movimenti di macchina ravvicinati sui volti sembrano usciti più da Arrested Development che da La grande scommessa.
La serie HBO creata da Jesse Armstrong riesce ad essere molte cose: un puro dramma ambientato nel mondo della finanza, una tragedia umana, una soap opera scritta splendidamente, una sfrontata messa in scena delle contraddizioni del potere e della società, con un'indiretta messa in stato d'accusa dei responsabili.