Succession (prima stagione): la recensione

Le nostre impressioni sulla prima stagione di Succession, nuovo drama della HBO

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Succession (prima stagione): la recensione

Ogni storia può essere narrata in forma di tragedia o commedia. Lo sa bene Jesse Armstrong, che nella sua carriera di sceneggiatore televisivo ha spaziato dalla satira politica di The Thick of It e VEEP all'inquietudine di Black Mirror. Succession, il suo ultimo progetto, realizzato per la HBO, si muove al crocevia tra questi due approcci opposti. Un oggetto quasi indefinibile, che oscilla tra il dramma puro e la vicenda farsesca ambientata ai vertici della società. O forse solo la tragedia ridicola di una famiglia che crolla sotto il peso della mediocrità dei suoi membri. In ogni caso una serie molto interessante, con una prima stagione in crescita continua.

La facoltosa famiglia Roy vive all'ombra ingombrante del patriarca Logan (Brian Cox). L'uomo ha costruito da zero un impero mediatico, ma la stanchezza e la vecchiaia lo hanno ormai raggiunto. Le condizioni di salute non gli permetterebbero più continuare a tenere lo scettro del potere, e probabilmente anche la sua visione del mondo della comunicazione ha fatto il suo tempo. Sta di fatto che l'uomo è restio a lasciare il posto ad uno qualunque dei suoi figli: Kendall, Siobhan, Roman e Connor (Jeremy Strong, Sarah Snooke, Kieran Culkin e Alan Ruck). Succession racconta i retroscena, le piccole ripicche, la mediocrità e talvolta la pura cattiveria di questi personaggi ricchi, ma fondamentalmente incapaci.

La presenza di Adam McKay – che ha anche diretto il primo episodio – alla produzione della serie ci avvicina all'approccio di La grande scommessa. In quel caso si raccontava l'origine della crisi economica con un linguaggio talvolta eccessivo, ma che era funzionale nel raccontare le storie di uomini ai vertici: figure egoiste o maschere ridicole. E ciò che colpiva era l'assoluta sfrontatezza e noncuranza con la quale si giocava con cifre astronomiche e ci si poneva con egoismo rispetto alle conseguenze che tutto ciò prima o poi avrebbe avuto. Da parte sua Succession parte da una base di finzione, ma Armstrong ha dichiarato di essersi ispirato alle vicende di alcune facoltose famiglie statunitensi. Il senso è quello di raccontare un potere (economico e non politico) incurante e irresponsabile.

E questo lo vedremo episodio dopo episodio. Ogni occasione per creare un clima conciliante o un tentativo di riscatto viene rifiutata per tornare a rimestare nella solita scalcinata lotta per il potere. Questo non è certo Re Lear, con la lotta tra fratelli per il lascito del padre. Anzi, dietro la patina da drama, questa storia somiglia più ad un Arrested Development ambientato nel mondo di Billions. Il tono della vicenda è sfuggente. Sarebbe drammatico, ma la scrittura gioca sempre sulla stridente incapacità dei personaggi rispetto al posto che occupano e rispetto a tutti i loro tentativi di migliorare la loro posizione.

Emblematico il personaggio di Kendall, totalmente asservito al padre, quasi tenero nel suo tentativo di ergersi come nuovo punto di riferimento dell'azienda. E poi c'è Roman: il volto di Kieran Culkin è tutto un programma, lui sì che trasforma immediatamente la serie in una commedia ogni volta che è in scena. La caratterizzazione di Siobhan, che è l'unica figlia femmina, rievoca curiosamente quella del personaggio di Kelly Reilly in Yellowstone, altra serie con cui Succession condivide vari punti in comune. Tutto il cast fa un ottimo lavoro, ma Brian Cox è in tutti i sensi il punto di riferimento e il perno della scrittura. Il suo personaggio è un concentrato di antipatia, arroganza e fragilità.

Forse proprio nella contraddizione insita in ognuno di questi personaggi (odiosi, ma in qualche modo affascinanti), sta la suggestione maggiore della serie.

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