Suburra (seconda stagione): la recensione
La seconda stagione di Suburra punta tutto su poche, sconvolgenti emozioni, inserite in un intreccio non sempre avvincente
Tracce chiare e inconfondibili di quell'intento sono individuabili anche nella seconda stagione, da oggi disponibile su Netflix con le otto puntate dirette da Andrea Molaioli (La ragazza del lago) e Piero Messina (L'attesa); proprio nella regia si notano cambiamenti positivi apportati nei nuovi capitoli, che adottano un'estetica più cinematografica di quanto non avesse osato la prima tranche di episodi. Tuttavia, stavolta la sceneggiatura risulta meno avvincente rispetto all'esordio; paga, è vero, lo scotto di non esser più una novità e di dover raccontare personaggi ormai ben delineati e, nel loro essere statuari, sempre meno malleabili in termini di metamorfosi interiore.
DA QUESTO PUNTO SONO PRESENTI SPOILER
L'impressione generale è che questa seconda stagione rappresenti un cuscinetto narrativo tra il grande epos del debutto e un futuro che trova il suo punto d'arrivo nel film di Stefano Sollima (non mancano strizzate d'occhio in tal senso); è ancora presto per escludere la possibilità che Suburra - La Serie appartenga a un'altra continuity rispetto alla sua controparte cinematografica, ma le morti di Livia Adami (Barbara Chichiarelli) e Lele, come il risveglio di Manfredi Anacleti (Adamo Dionisi), segnano un cambio di rotta che riporta la storia principale più in linea con le intenzioni di un prequel.
Certo, il tenebroso Aureliano non concede immediatamente le sue grazie alla giovanissima Nadia (Federica Sabatini), da lui "adottata" dopo averle freddato il padre sotto gli occhi; per un attimo, Suburra ci illude di essere coraggiosa, evitando al protagonista la frettolosa consolazione del sesso con un personaggio di dubbia utilità narrativa. Ma è l'esitazione di un attimo: basta aspettare qualche episodio per vedere il nostro ex ossigenato antieroe capitolare, in un momento in cui peraltro l'amplesso tra i due risulta particolarmente forzato; gli fa eco, di lì a poco, un improbabile bacio in luogo pubblico tra la Sara Monaschi di Claudia Gerini (in secondo piano rispetto al peso ricoperto nella prima stagione) e l'Amedeo Cinaglia di Filippo Nigro.
Si fa un gran parlare dell'introduzione di nuovi personaggi femminili nella serialità, ma relegarli al mero ruolo di love (?) interest dei protagonisti ne fiacca la credibilità, aumentando il rimpianto per la perdita di una figura come Livia che, a nostro parere, poteva essere sfruttata più efficacemente in questi nuovi episodi. Questo senza nulla togliere a quella che è - assieme al suicidio di Lele - la scena più emozionante dell'intera stagione: il drammatico confronto tra Livia e Aureliano, con quest'ultimo diviso tra la sete di vendetta e l'amore fraterno, adombrato di una morbosità prima suggerita e poi esplicitata. Una sequenza potentissima, che l'intensità quasi bestiale di Chichiarelli e Borghi fa assurgere a perfetto esempio di arte tragica.
A bilanciare la dubbia riuscita del personaggio di Nadia interviene, in parte, la poliziotta Cristiana interpretata da Cristina Pelliccia; sebbene operi nel segmento narrativo meno avvincente della serie (con echi da Distretto di Polizia che si discostano nettamente dal tono generale), è protagonista di un originale plot twist nella seconda metà di stagione, e ci auguriamo che possa evolvere degnamente nell'eventuale prosieguo della serie Netflix. Ma sono Adelaide Anacleti (Paola Sotgiu) e Angelica Sale (Carlotta Antonelli) le stelle più luminose di questi nuovi episodi, vero cuore pulsante della storyline degli zingari (che risulta, non a caso, la più riuscita dell'intreccio). In un contesto fortemente maschilista, queste due nemiche emergono come punte di diamante, senza che la loro evoluzione si pieghi a forzate logiche di genere: convincono, sorprendono e appassionano non perché femmine, ma perché ben scritte.
Anche quest'anno, Suburra presenta al pubblico uno scenario desolato, in cui tanto la politica quanto la Chiesa subordinano la propria funzione primaria agli interessi individuali più gretti, trovando l'infernale punto d'incontro in un Samurai più agguerrito che mai, contraltare dell'uomo stanco visto nel finale della prima stagione. È una vasca di squali, un'arena di belve feroci affamate di sangue e potere, in cui ogni ombra di etica - Gianni Taccon e Franco Marchilli nella prima stagione, Mara (Fiorenza Tessari) nella seconda - viene cancellata con il delitto o con la corruzione.
L'esiguo spazio che il sentimento riesce a rosicchiare in questo universo brutale è comunque destinato a soccombere: mentre Manfredi riapre gli occhi, suo fratello (superba come sempre la prova di Ferrara) mette fine alla vita dell'amante Teo (Aleph Viola) - a loro si deve l'unica scena di sesso di questa stagione - per salvaguardare il proprio segreto. È la beffa finale per Alberto, un cruento - e non troppo sofferto - rito di passaggio che dovrebbe garantirgli il comando del clan, ma che si rivelerà inutile se Manfredi tornerà a casa Anacleti. Proprio l'epilogo, con Manfredi che apre gli occhi chiedendo alla madre "Cosa mi sono perso?", mette in luce il peccato mortale di questa seconda stagione: la freddezza.
Freddo è l'intreccio, freddi sono i protagonisti - anche in virtù di una crescita personale avvenuta in un mondo spietato - e gelido è il finale. Teo non è Isabel, Suburra non tenta neppure di appassionare lo spettatore al suo legame con Alberto; a riscaldare questo clima glaciale restano solo le fiamme del rogo (purificatore?) che consuma le carni di Lele dinnanzi agli occhi di Aureliano e Spadino, che questa conclusione - a seguito di un breve ma toccante chiarimento sulla sfortunata passione della prima stagione - vede uniti come mai prima e pronti ad allearsi con l'ex figlioccio di Samurai, lo speaker Adriano (Jacopo Venturiero).
Con quest'immagine ancora una volta triangolata, Suburra prepara il terreno a un ennesimo parricidio, ricordandoci la sua linea tematica fondamentale: la brama di potere che passa attraverso l'eliminazione dei padri. Caro Manfredi, ecco cosa ti sei perso: molti eventi in un paesaggio freddo rischiarato da pochissime, brucianti emozioni. C'è un po' di Shakespeare anche in questo.