Stringimi forte, la recensione

Una madre che una mattina fugge e un film che si sfalda inseguendo suggestioni per poi ricomporsi alla fine e mostrare il perché di quella struttura

Critico e giornalista cinematografico


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Stringimi forte, la recensione

Ci prova Mathieu Amalric a battere un’altra strada. Attore eccezionale quasi da subito diventato anche occasionale regista (ma il suo film migliore rimane il più convenzionale, il terzo, Tournée, così pieno di ruvida vitalità), fa film quando ha idea di poter dire qualcosa in modi differenti e così con Stringimi forte tenta un percorso che nessuno intraprende per arrivare là dove molti vogliono arrivare, cioè per raccontare qualcosa che il cinema ha sempre caro e, specialmente negli ultimi venti anni, ha raccontato tantissimo. La vaghezza è d’obbligo perché il film tiene molto nascosta la propria essenza, fino alla fine non capiamo cosa stia narrando e quale sia il punto di una struttura spezzata e che volontariamente mischia le acque.

Sappiamo che Camille, madre di due figli, una mattina è uscita di casa lasciando il marito con loro e non fa ritorno. Non ci sono spiegazioni, il marito qualcosa si inventa e la vita continua senza di lei. Seguiamo il tempo scorrere, i bambini crescere e Camille vivere altre avventure, sempre con l’idea che non siano chiare le collocazioni temporali delle scene e che la logica concatenazione degli eventi non sia la maniera in cui Stringimi forte vuole parlare. Preferisce saltare di suggestione in suggestione, mostrare momenti significativi dello sviluppo di bambini e di Camille per poi lentamente negli ultimi minuti giungere ad un senso.
Questo modo di procedere non è mai esaltante perché dovrebbe costringere lo spettatore a ripassare quel che ha visto alla luce di una nuova consapevolezza. Buono per i thriller con finale a sorpresa meno per i drammatici.

Nondimeno è vero che Stringimi forte ha più di un momento non banale in cui il montaggio di scene diverse e le sorprese di certi momenti (ci pare ad un certo punto che lo stesso personaggio sia interpretato da due attrici diverse) mescolano assenze e presenze e colpiscono per come arrivano inattese. È scappata Camille ma ad un certo punto a non trovarsi sono i figli, le cui impronte fanno pensare che siano morti assiderati (ma forse sono impronte di cerbiatti). Vicky Krieps (già in Il filo nascosto e Bergman Island) è perfetta a veicolare questa continua aria assente e trasalita, sempre fuori dalle cose come se fosse spaesata.
Cosa si provi quando qualcosa scompare, qualcuno fugge, una persona non c’è più, un’altra rimane e tutti devono avere a che fare con presenze e assenze è quello che interessa al film. Mostrarlo come sempre sì fa non era un’opzione e Amalric sperimenta, trova qualche soddisfazione e si leva lo sfizio di provare un cinema diverso.

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