Stranger Things (terza stagione): la recensione

La terza stagione di Stranger Things unisce una nuova forma di orrore alla vivida rappresentazione del passaggio dall'infanzia all'adolescenza

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Che i piccoli protagonisti di Stranger Things sarebbero cresciuti sotto gli occhi dello spettatore è una consapevolezza arrivata col rinnovo della serie per una seconda e, in seguito, terza stagione; quel che il pubblico non poteva immaginare o sperare era che, parallelamente alla maturazione dei bimbi al centro degli eventi soprannaturali di Hawkins, avrebbe assistito alla maturazione del materiale narrativo elaborato dalla serie dei fratelli Duffer.

Ebbene, la terza stagione di Stranger Things è approdata su Netflix portando con sé un inedito tripudio di nuance sia visive - gli otto nuovi episodi si svolgono nella colorata estate del 1985 - che sentimentali: ritroviamo gli innamorati Mike (Finn Wolfhard) ed Eleven (Milly Bobbie Brown) alle prese con le prime, intense effusioni sotto lo sguardo torvo del padre adottivo della ragazzina, lo sceriffo Jim Hopper (David Harbour), a sua volta coinvolto in un gioco di frecciatine con Joyce Byers (Winona Ryder) che malcelano la reciproca attrazione tra i due.

Mike e Eleven non sono gli unici ad aver aperto il cuore all'amore: Lucas (Caleb McLaughlin) e Max (Sadie Sink) proseguono la loro relazione, e persino Dustin (Gaten Matarazzo) annuncia, al ritorno da un campus di scienze, di aver trovato l'anima gemella nella misteriosa Suzie. Questo panorama all'insegna dell'ormone in boccio consente agli autori di creare interessanti fratture interne al gruppo dei ragazzini, nonché di indagare il doloroso passaggio dall'infanzia all'adolescenza attraverso gli occhi di Will Byers (Noah Schnapp), i cui giochi sembrano non destare più alcun interesse negli amici.

È una rappresentazione sottile e sensibile, che non prende granché spazio all'interno della trama principale - dopo il ruolo preminente svolto nella seconda stagione, Will torna qui a essere un personaggio piuttosto marginale - ma che esemplifica al meglio ciò che solleva Stranger Things dal rischio di una macchinosità evenemenziale scardinata dalla matrice emotiva dei propri protagonisti. I nostri eroi stanno crescendo, e questo significa in parte rinunciare all'atmosfera giocosa e sognante della prima stagione e di buona parte della seconda, in favore di tinte meno nostalgiche e più corpose sul piano del pathos.

Non è un caso che, andando avanti, l'effetto operazione nostalgia sia andato sempre più scemando nel corso della passata stagione, fino a raggiungere i minimi storici in queste nuove puntate: le strizzatine d'occhio non mancano, dalle esplicite menzioni di Ritorno al Futuro agli omaggi visuali allo Spielberg di E.T. e al Carpenter di La Cosa, forse il riferimento più marcato di questa stagione; tuttavia, gli easter egg vintage fungono ormai da fulminee coordinate spazio-temporali per lo spettatore, affrancando la serie dal rischio di un continuo ammiccamento di maniera.

C'è molta sostanza, in questa terza stagione di Stranger Things, a partire dai già citati nuovi equilibri del gruppo, che danno luogo a combinazioni di personaggi fresche e accattivanti: spicca la linea comica affidata a Steve Harrington (Joe Keery) e Dustin, arricchita dalla new entry Robin (Maya Hawke). La chimica del terzetto - cui si aggiunge in seguito la piccola Erica (Priah Ferguson) - tiene in piedi una storyline non priva di falle, ma godibile proprio in virtù della simpatia dei suoi personaggi, alle prese con un gruppo di agenti segreti russi infiltratisi ad Hawkins per motivi misteriosi.

Lasciando saggiamente da parte i fallimentari semi gettati nel settimo episodio della scorsa stagione, la serie ci presenta un nuovo nemico che, in realtà, abbiamo imparato a conoscere assai bene: il Mind Flyer, protagonista delle terrificanti visioni di Will e qui collezionista di corpi con cui accresce la sua mastodontica mole. Le modalità in cui il mostro miete vittime sono a dir poco agghiaccianti, e va dato atto al comparto degli effetti visivi di aver svolto un lavoro impressionante in termini di fantasy horror.

Sicuramente superiore, in termini di omogeneità ritmica e coerenza di toni, rispetto alla seconda stagione, questo nuovo arco di episodi ci mostra una Stranger Things più pacata e riflessiva, che si adagia con delicatezza su una trama di semplice linearità per divertire al massimo i propri fan. Forse il segno più evidente della maggiore sicurezza acquisita dai Duffer sta nella scelta di ambientare la stagione in estate, negandosi quindi la consueta dipendenza da grigi spettrali e ombre per creare atmosfere inquietanti. Il buio del terrore fa qui attrito con la vivacità cromatica della bella stagione, in un contrasto esteriore che rimanda a quello vissuto internamente dai protagonisti in fase di crescita.

Un cambio di rotta, quindi, che corrisponde appieno alla natura più profonda di queste nuove puntate, che mescolano la solare gioia della scoperta dell'amore al malinconico congedo dall'età infantile; è una stagione d'addio sotto molti punti di vista, e il suo epilogo agrodolce coglierà di sorpresa buona parte del pubblico, conferendo a Stranger Things una drammaticità finora sfiorata solo tangenzialmente, qui affrontata di petto come ogni dramma "adulto" che si rispetti. Un vitale tuffo nella giovinezza, con tutto quello che di bello e straziante essa comporta.

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