Stranger Things 4 - Volume 2: la recensione

La conclusione della quarta stagione di Stranger Things, seppur dispersiva, è l'apoteosi di quanto seminato dalla serie sin dal suo esordio

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Spoiler Alert

La nostra recensione della seconda parte della quarta stagione di Stranger Things, disponibile su Netflix

"Non è pronta." Il dott. Martin Brenner (Matthew Modine) lo ribadisce più volte nel corso dei due chilometrici episodi finali della quarta stagione di Stranger Things. Undici (Millie Bobby Brown) non è pronta per affrontare il pericolo che minaccia Hawkins e, in prospettiva, il mondo intero. Chissà quanti, tra gli spettatori della serie Netflix, avranno fatto spallucce sentendo queste parole, certi che la ragazzina avrebbe ancora una volta salvato l'universo.

La realtà è che, come Undici, la maggioranza del pubblico non era pronto al fallimento. Qualche decesso si era messo in conto, serbando però nel cuore la sicurezza che la piccola protagonista avrebbe come sempre portato a casa il risultato. È per questo - e per tanti altri motivi - che queste due puntate conclusive confermano l'intelligenza della scrittura di Stranger Things; una scrittura certo non esente da difetti, ma fortunatamente ancora libera dalla presunzione di poter dare qualsiasi cosa in pasto al proprio inebetito pubblico.

Become human

Già nella nostra recensione della prima parte di stagione avevamo sottolineato come la scelta di un villain antropomorfo aggiungesse molto alla serie in termini di profondità tematica. Stranger Things opera una sostituzione che potrebbe sembrare paradossale, passando dall'assetto uomo vs mostro a quello uomo vs uomo. Undici ed Henry sono due facce della stessa medaglia, malsani prodotti di una sperimentazione atroce; è solo la natura compassionevole della prima a salvarla dal divenire un abominio come il secondo. D'altra parte, però, sia Undici che Henry sono speciali, unici: due mostri, nell'accezione latina del termine. Come sopra, però, non è la loro diversità a renderli nocivi per il mondo in cui vivono. La diversità non è, di per sé, un male. Soprattutto, non è ciò che distingue l'umano dal disumano.

È questo un tema portato in primo piano più volte in questi due episodi; spicca in particolare il discorso che Will (Noah Schnapp) fa a Mike (Finn Wolfhard), parlando - come sempre nella stagione - di Undici ma, in realtà, anche di se stesso. La diversità spaventa, respinge, isola. Eppure, è in virtù di quella diversità che, così come Mike si è innamorato di Undici, ci siamo innamorati dei piccoli reietti di Stranger Things. In tal senso, Eddie (Joseph Quinn) è l'ultimo di una sequela di personaggi strambi cui abbiamo donato con piacere un pezzettino di cuore, consapevoli del rischio di vedercelo calpestare dalle esigenze di trama. La sua morte colpisce a fondo, oltre a garantire a Quinn e al Dustin di Gaten Matarazzo l'occasione per illuminare la scena con performance di vibrante intensità.

When it's cold I'd like to die

Proprio nella scena della dipartita di Eddie è presente un rimando musicale che tanto dice su questa quarta stagione: mentre il ragazzo esala l'ultimo respiro tra le braccia dell'amico Dustin, sentiamo le note di When it's cold I'd like to die, già protagonista di una struggente scena nella prima stagione. Lo splendido brano di Moby è un'eccezione nella colonna sonora altrimenti filologica della serie; risale, infatti al 1995. Una scelta bizzarra, specialmente considerando la vastità della libreria musicale cui la serie avrebbe potuto attingere (la presenza di Master of puppets dei Metallica è la conferma del potere che la serie Netflix ormai detiene).

Consci di ciò, siamo portati a credere che la decisione di inserire un brano degli anni '90 non sia meramente estetica, ma veicolo di qualcos'altro. Come Running up that hill ci ricorda costantemente che la serie è ambientata negli anni '80, così When it's cold I'd like to die ci ricorda che Stranger Things non è una serie - o, più precisamente, un film - degli anni '80. Non è I Goonies, in cui i giovani protagonisti escono trionfanti dalla loro avventurosa odissea. Non è neanche Halloween (1978), dove le morti si susseguono fini a se stesse; è figlia di tutto ciò, una creatura ibrida perfettamente collocata nel suo tempo e consapevole di come si possa mediare tra esigenze nostalgiche e gusto contemporaneo.

Lasciar andare

Mai quanto in questa stagione, i fratelli Duffer ci hanno preparati all'eventualità di perdere uno dei personaggi principali. Fermo restando che certo, Undici avrebbe comunque salvato il mondo, la paura che uno dei protagonisti ormai "storici" della serie potesse finire vittima del Sottosopra - o, perché no, della cieca furia della squadra di basket - striscia sottile dalla prima all'ottava puntata. Una paura più che giustificata, in virtù dell'astuta scelta di mettere Max (Sadie Sink) in pericolo nella prima parte di stagione per farcela credere successivamente al sicuro. Non c'è disonestà alcuna, però: c'è, semmai, la precisa volontà di costruire un legame forte col personaggio di Max, in previsione di quello che sarà il vero e proprio, inaspettato addio.

Certo, neanche alla fine della stagione la ragazza è davvero defunta; il suo fato resta appeso a un filo, ma l'oscurità sorda in cui Undici si ritrova una volta entrata nella mente dell'amica in coma non lascia presagire nulla di buono. Ancora una volta, tornano alla mente le parole della canzone di Moby: "I don't want to fight the tide / I don't want to swim forever / When it's cold I'd like to die." E, al contempo, tornano alla mente Bob e Billy; c'è, in Stranger Things, una strana ma affascinante coesistenza tra i decessi più cruenti - basti pensare a Chrissy - e una certa serenità riservata a coloro che, consapevolmente, si sacrificano per poi lasciarsi andare alla morte. Una visione consolatoria ma efficace, foriera di un carico emozionale potentissimo che cementa, nella memoria del pubblico, il dolore provato per ogni singolo distacco, per ogni singolo sacrificio eroico.

Riconnettere i fili

Consapevole, inoltre, della propria natura seriale, Stranger Things sta muovendo i propri passi in previsione della quinta e ultima stagione. Memore dell'errore - ormai sapientemente rattoppato - della seconda stagione, non ambisce ad ampliare in direzioni imprevedibili la propria narrativa. Come ogni abile tessitore, sta recuperando pian piano i fili della propria trama, riconnettendoli per creare un quadro che abbia coerenza complessiva. Tutto inizia a ricollegarsi, tutto inizia a ricomporsi, in attesa del gran finale. Questo vale per il Sottosopra e i suoi mostri governati da Henry, certo, ma anche per gli invisibili demoni interiori dei protagonisti.

Nancy (Natalia Dyer) e Jonathan (Charlie Heaton) stanno solo rimandando il momento in cui dovranno prendere atto della loro incompatibilità; intanto, Will riguadagna spazio rispetto alla relativa assenza dalla prima metà di stagione, e Schnapp rifulge nel bilanciare con sensibilità il tumulto interiore del ragazzo e la paura di dichiarare i propri sentimenti. Incantevole, in tal senso, la scena tra Will e Jonathan, piccola gemma di sottotesto affidata alla delicatezza interpretativa dei due attori. E di grandi performance pullulano questi due episodi; quasi obbligatorio menzionare Sink e Brown, eroine della stagione e ormai giustamente lanciate nello star system. Anche Lucas (Caleb McLaughlin) conferma quanto visto nei primi sette episodi conquistando finalmente anch'egli un ruolo di primo piano.

Una coerenza mai tradita

Ciò che sorprende maggiormente, guardando Papa e Il piano, è come risultino l'apoteosi - in termini di produzione - di un discorso iniziato sei anni fa e che mai ha tradito la propria poetica. Sono due puntate ricche di avvenimenti, persino dispersive nel dover seguire i distinti gruppi di personaggi impegnati in luoghi stavolta troppo, troppo distanti tra loro. Eppure, messa in prospettiva, questa stagione è il perfetto coronamento di un percorso che appare ai nostri occhi come accuratamente studiato. Che i fratelli Duffer abbiano corretto in corsa la trama della serie, inquadrando elementi passati in una cornice magari creata solo in questa stagione, ci interessa poco. Quel che conta è il risultato: Stranger Things resta fedele a sé stessa.

Permangono le strizzate d'occhio ai grandi cult degli anni '80, permane la colonna sonora come anima pulsante della narrazione. Permane anche la confortante prevedibilità di certe meccaniche, che si tratti di un jump scare o di un momento romantico puntualmente interrotto da un'emergenza. La serie dei Duffer non vuole sorprenderci in questo senso; è cresciuta, complice il successo planetario, ma non è evoluta in una creatura "altra" rispetto a quella di cui abbiamo visto muovere i primi passi. È ancora una dolce parabola sull'amicizia e sui sentimenti inespressi, così come una lotta degli emarginati - di ogni età ed estrazione sociale - per essere accettati da un contesto diffidente e ottuso.

All'altezza

A ormai sei anni dal suo debutto, possiamo dirci ragionevolmente sicuri che Stranger Things sappia imparare dai propri errori; aver riportato tutti i protagonisti a Hawkins, lì dove tutto era iniziato, prepara il terreno a una resa dei conti sentimentalmente intensa. Ciò che è evidente, osservando questa "vigilia dell'Apocalisse", è che la serie non ha perso nulla di ciò che ci ha fatti invaghire di lei. Quel che cambia è la scala; e abbiamo tutte le ragioni per pensare che la quinta stagione sarà qualcosa di enorme, sia visivamente sia emotivamente. Stranger Things è cresciuta gradualmente assieme ai suoi piccoli protagonisti, ne ha condiviso trionfi e sconfitte; in questo senso, la osserviamo oggi con gli stessi occhi con cui guardiamo Mike, Will, Lucas, Dustin e Undici.

Siamo con loro sin dall'inizio, e non vediamo l'ora di accompagnarli nel tuffo finale di quella che è diventata, contro ogni previsione iniziale, il vero fiore all'occhiello di Netflix. Lontana dalla tentazione di dover sempre superare se stessa, Stranger Things ci ha dimostrato qualcosa di importante; facendo un passo indietro rispetto alla sovrumanità dei mostri finora presentati e riportando il conflitto su un piano più "umano", ha preparato il campo di battaglia per lo scontro più devastante di tutti: quello tra l'uomo e le proprie paure, le proprie angosce, i propri errori. Di questo, non di altro, parla la serie dei Duffer; non ci sarebbero incursioni dal Sottosopra se non fosse per la disperazione di una bambina prigioniera. Il sonno della ragione genera mostri, ci insegna Goya; in questo caso, è un sonno impregnato di paura e rimorso a riversare dolore sulla terra. Un dolore la cui matrice è, per questo, irresistibilmente umana.

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