Stranger Things 4 - Volume 1: la recensione

La prima parte del nuovo arco di Stranger Things mostra la crescita della serie attraverso temi scabrosi e nuovi, cupi riferimenti

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La recensione dei primi 7 episodi della stagione 4 di Stranger Things, disponibili su Netflix dal 27 maggio, gli ultimi 2 usciranno in streaming l'1 luglio

George Orwell affermava che, in tempo di menzogna universale, dire la verità fosse un atto rivoluzionario. Se c’è un’età della vita in cui il peso delle bugie è pari a quello di un macigno, quella è l’adolescenza; una fase brutale, violenta e delicata in cui, pagando il prezzo delle menzogne raccontateci nell’infanzia, mentiamo a noi stessi e agli altri. Per paura, per orgoglio, per amore o per divertimento; le ragioni sono varie, il risultato è (quasi) sempre il medesimo: la frottola.

Gli anni bugiardi

La verità è, senza possibilità d’equivoco, il grande tema del nuovo arco narrativo di Stranger Things; declinata per essere al servizio di pressoché tutte le storyline, essa viene vituperata e manipolata praticamente da chiunque. Già l’epoca in cui la storia si svolge offre terreno fertile per riflessioni sul binomio realtà/finzione; dopo la relativa genuinità, l’anelito alla naturalezza portato avanti dagli anni ‘70, con gli ‘80 si entra in un’era di vistosa, sfacciata contraffazione estetica, che passa dalla cotonatura dei capelli alle spalline che deformano esageratamente la silhouette.

Sono anni in cui la menzogna e l’indifferenza causano morte; si pensi, in tal senso, alla piaga dell’AIDS, scientemente ignorata dalle alte sfere e, di conseguenza, fucina di una disinformazione di cui tuttora paghiamo lo scotto. In questo contesto si muovono i giovanissimi protagonisti di Stranger Things, costretti a tacere sui folli eventi che hanno portato, tra l’altro, alla morte di un loro coetaneo e alla scomparsa dell’amato sceriffo Jim Hopper (David Harbour). Figli di un universo che li spinge a distorcere la realtà in nome dell’ordine pubblico, non ci stupisce vederli spaesati e disposti a coprire i propri problemi con una patina di dorata, rassicurante fandonia.

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Favole oscure

Partiamo da Eleven (Millie Bobby Brown), che cela la piaga del bullismo all’amato Mike (Finn Wolfhard). Attraverso le lettere scambiate con il ragazzo, ella dipinge un fittizio quadro idilliaco della propria nuova vita in California, censurando per vergogna ogni sopruso subito dagli spietati compagni di classe. Mente anche Will (Noah Schnapp); che la sua sia semplice gelosia amicale o che, com’è più probabile, egli celi un’infatuazione con cui è spaventoso fare i conti, è fin troppo ovvio che stia nascondendo i propri sentimenti all’amico Mike.

Mente Max (Sadie Sink), mai ripresasi del tutto dalla morte del fratellastro Billy; mascherando il proprio trauma sotto la comoda facciata dell’ apatia adolescenziale, si logora in silenzio confortata dalla tossica compagnia dei farmaci. E così Nancy (Natalia Dyer) e Jonathan (Charlie Heaton), fintamente protesi verso un futuro comune che cozza con le loro divergenze; non sono sinceri neanche Robin (Maya Hawke) e Lucas (Caleb McLaughlin), lei alle prese con l’attrazione per una fulva trombettista e lui distaccatosi dagli amici d’infanzia in virtù di doti atletiche che potrebbero salvarlo dall’etichetta di sfigato.

Il peso della sincerità

L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo, in quella che sembra essere una sequela ininterrotta di non detti o, peggio, di mistificazioni. Non è un caso che tra i pochi personaggi sinceri della stagione vi sia un outsider bizzarro, portatore dell’”atto rivoluzionario” auspicato da Orwell. Si tratta di Eddie (Joseph Quinn), capelluto master di D&D nonché aggiunta tra le più felici del cast della serie; in una stagione in cui i protagonisti rompono il reciproco patto di sincerità stipulato all’inizio del loro cammino, Eddie si staglia come un faro in un formicaio di piccole e grandi bugie, fiero della propria natura anticonformista e consapevole che non gli porterà nulla di buono.

Complice una serie di efferati omicidi che sconvolgono ancora una volta Hawkins, il giovane si ritrova al centro di una rete di bugie intessuta dagli altri; a nulla vale la sua sincerità di fronte a un mondo incapace di comprenderla. Più comodo rifugiarsi nell’ipotesi di una setta satanica dedita ai sacrifici umani, piuttosto che tentare di capire ciò che non si conosce. L’ottusità del paese colpisce (e rischia di affondare) Eddie, che si salva solo in virtù dell’aiuto dei suoi amici bugiardi. Amici che, stavolta, si trovano a dover fronteggiare un pericolo oscuro senza più il vantaggio dei superpoteri di Eleven.
Un pericolo i cui dettagli, per correttezza, terremo nascosti fino all’uscita degli episodi su Netflix, il 27 maggio.

[caption id="attachment_426105" align="aligncenter" width="1200"]STRANGER THINGS. (L to R) Joe Keery as Steve Harrington, Gaten Matarazzo as Dustin Henderson, Sadie Sink as Max Mayfield, Finn Wolfhard as Mike Wheeler, Natalia Dyer as Nancy Wheeler, and Caleb McLaughlin as Lucas Sinclair in STRANGER THINGS. Cr. Courtesy of Netflix © 2022 Una foto dei protagonisti della serie[/caption]

Nuovi vecchi riferimenti

La matrice fortemente derivativa di Stranger Things non trova eccezione in questo nuovo arco: abbandonato il tepore delle atmosfere alla Goonies, i sette episodi attingono a piene mani dal cinema thriller/horror degli anni ‘80 e ‘90; si omaggiano Carpenter, Raimi, Cronenberg e Hughes, in un caleidoscopio di rimandi accompagnato da una colonna sonora mai stata così affollata. Colonna sonora che, peraltro, gioca un ruolo cruciale nello sviluppo della trama principale, assurgendo a un ruolo da protagonista al pari dei giovani attori della serie.

I sentimenti provati dai personaggi principali sono più maturi, più intensi, più sconvolgenti; allo stesso modo, aumenta a dismisura la violenza grafica delle morti mostrate, con corpi distorti e volti sfigurati fino a qualche anno fa impensabili per una serie destinata a un pubblico così ampio. In questo senso, i Duffer strizzano l’occhio al coraggio di un cinema che appare ormai remoto, spregiudicato nel mostrare i lati più cupi dell’animo umano senza rinunciare a una buona dose d’ironia. È a quella mescolanza di generi, a quella sfrenata vitalità creativa che Stranger Things china il capo, consapevole che da grandi riferimenti possa nascere, con la dovuta umiltà, un pregevole tributo.

Potenza diluita

Abbiamo elogiato, senza spoilerare, alcuni dei punti di forza di questi primi sette episodi; sarebbe ingiusto tacere di quelle che sono, invece, le sbavature evidenti di una stagione ancora monca. Sebbene la gran quantità di linee narrative garantisca varietà alle puntate, si ha troppo spesso la sensazione di assistere a storie completamente scollegate; questo vale, soprattutto, per quanto riguarda il filone ambientato in Russia, tanto avvincente quanto privo di nessi narrativi (almeno per ora) con il resto della trama.

Se a ciò andiamo ad aggiungere un minutaggio quantomai ardito, il quadro che ne esce è piuttosto discontinuo; una sintesi maggiore avrebbe certamente giovato a una stagione che, in più di un’occasione, sembra avvitarsi su se stessa in virtù della necessità di colmare sette lunghi, talvolta lunghissimi episodi. Per gli appassionati questo non sarà un gran problema, ne siamo certi; non possiamo però esimerci dal confronto con l’ottima terza stagione, asciutta e priva di reiterazioni superflue. È ancora presto per emettere un giudizio complessivo su questo nuovo capitolo; per adesso, ci limitiamo ad applaudirne l’inedita profondità drammatica e la vibrante potenza orrifica che si fa, ancora una volta, specchio dei mostri interiori dei protagonisti.

ATTENZIONE! Da qui in poi, troverete spoiler!

Stranger Things 4 Vecna

Un nemico inedito

Al di là del già citato tema portante, il maggior motivo d’interesse di questi sette episodi risiede nella scelta di un villain completamente diverso da quanto visto finora. Le prime tre stagioni di Stranger Things ci avevano abituati a una contrapposizione, con i buoni e i cattivi nettamente separati dall’appartenenza o meno al genere umano. L’uomo contro il mostro, il mondo reale contro il sottosopra; questo è quanto, finora, aveva voluto raccontarci la serie dei fratelli Duffer.

In parallelo alla crescita dei propri piccoli eroi, Stranger Things fa un passo importante; sin dalla prima volta in cui lo vediamo, il mostro di questa stagione ha un aspetto più antropomorfo delle creature affrontate finora. Se, da un lato, questo apre la porta a una serie di domande necessarie che trovano parziale risposta solo nel settimo episodio, questa trovata offre la possibilità alla serie di esplorare territori a lei nuovi, saziando la fame di sorprese di un pubblico che ha dovuto attendere quasi tre anni per tornare a Hawkins.

Gioco di ombre

Nel corso di questa prima tranche di episodi, gli autori seminano indizi atti alla risoluzione del mistero dietro l’entità che massacra indisturbata i giovani di Hawkins. La scoperta dell’identità della creatura assassina arriva dopo un’attenta preparazione, in cui lo spettatore ha avuto modo di vederla in diverse fasi della propria vita. È una simpatica sfida deduttiva, che invita il pubblico a diventare parte attiva dell’indagine portata avanti dai protagonisti. La risposta può sorprenderci o meno, ma quel che conta qui non è l’effetto sorpresa. 

Il flashback con cui la stagione si apre ci mostra un massacro operato, apparentemente, da Eleven bambina nel laboratorio di Brenner (Matthew Modine). È solo scavando nei ricordi della ragazza che scopriamo, molto più avanti, quanto è realmente accaduto. Il macellaio non è lei, bensì Henry Creel (Jamie Campbell Bower), già autore - da bambino - dell’eccidio soprannaturale della propria famiglia, poi “raccolto” da Brenner in virtù delle sue capacità paranormali.

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Lo specchio oscuro

L’antropomorfizzazione del cattivo consente a Stranger Things di rinnovarsi, percorrendo strade più intime e dolenti rispetto al passato; il balzo nel passato compiuto da Eleven la mette dinnanzi a una scomoda verità che, se da una parte la deresponsabilizza dal massacro al laboratorio, la pone di fronte a uno specchio oscuro di ciò che potrebbe diventare. Henry Creel non è così distante da lei; sebbene solcato da una vena di follia sin dall’infanzia, è la costrizione degli esperimenti di Brenner ad averlo reso un mostro.

Ritorna, con inusitata potenza, il tema della verità: Eleven ha rimosso quel ricordo, chiudendolo in un angolo sicuro della propria coscienza, forse impaurita dal significato di quella memoria. Ha, di fatto, mentito a se stessa per non ritrovarsi davanti allo spettro distorto del suo divenire. Creel diviene quindi non solo un monito vivente, ma anche un pessimistico presagio del futuro della protagonista. Cosa sarebbe successo, sulla pista di pattinaggio, se Eleven fosse stata in possesso delle proprie facoltà soprannaturali? Il dubbio aleggia; il pubblico conosce la natura della ragazza, ma sa anche che dalla violenza (fisica o psicologica che sia) nasce altra violenza.

Patto con Dio

Ode synth alla ricerca di empatia, Running up that hill di Kate Bush assurge giustamente a leitmotiv dei sette episodi, veicolata dalle cuffie di Max in cerca di pace dai suoi fantasmi. Il testo del brano invoca a gran voce un impossibile patto con Dio che consenta di calarsi l’uno nei panni dell’altro; è forse il desiderio intimo di tutti i protagonisti, la soluzione alla coltre di bugie e omissioni che li divide. Una cortina di menzogne motivata, appunto, dalla paura di non essere compresi, di non essere accettati, di non essere amati.

In quest’ottica, l’accorato appello che Lucas fa a Max nel quarto episodio è il grido fuori dal coro più potente - finora - della stagione; un invito a parlare, a scoprirsi e a confessarsi qui e ora, senza demandare a lettere (o dipinti, nel caso di Will) la comunicazione diretta. La verità spaventa, ma è l’unico strumento di affrancamento definitivo dal buio delle proprie paure; sebbene Lucas stesso sia prigioniero del timore dell’emarginazione, intravede lucidamente una via d’uscita per Max e per gli altri. Tortuosa, in grado di porre davanti a prospettive - come quelle di Eleven - talvolta terrificanti, ma necessaria ancora alla costruzione (e ricostruzione) della propria identità.

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