Stranger Eyes, la recensione: nel 2024 si può ancora inventare nuovi sguardi

La recensione di Stranger Eyes, il film diretto da Yeo Siew Hua presentato in concorso al Festival di Venezia

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Faremmo notte se dovessimo elencare i grandi film dedicati al voyeurismo. In un medium basato sul guardare è praticamente inevitabile il proliferare di riflessioni sul tema, all’incrocio tra costruzione del personaggio, dello spazio scenico, dell’esperienza registica e spettatoriale. Bastino Hitchcock, Powell e De Palma come stelle polari. Proprio perché si tratta di un tema così abusato (soprattutto in area festival) sorprende che Stranger Eyes riesca ancora oggi a dire qualcosa di fresco a riguardo. E il merito è di un netto cambio di prospettiva. Anzichè ragionare sulle implicazioni del guardare per chi guarda – con annessi giudizi sulla moralità del pubblico, sulle pulsioni morbose dell’inconscio ecc – qui ci si sposta su chi è guardato.

Detto così neanche questo è del tutto nuovo. Film come Una squillo per l’ispettore Klute (1971) e Perfect Blue (1997) avevano già ruotato il cannocchiale per raccontare lo sguardo subìto. Erano però film intrisi di una dimensione paranoica, complementare in realtà alle riflessioni sul voyeurismo predatorio di un L’occhio che uccide. Inizialmente quello che fa il singaporiano Yeo Siew Hua sembra simile (personaggi che si accorgono di essere spiati/stalkerizzati). Ma dietro la somiglianza superficiale sta un mondo emotivo e simbolico completamente diverso, che si potrebbe riassumere così: mentre quelli di Pakula e Satoshi Kon erano film sull’essere guardati, Stranger Eyes è un film sull’essere visti.

Può essere difficile ambientarsi nel ritmo urbano e familiare del film. La palette è un grigio uniforme molto poco accattivante, le espressioni sono limitate al minimo, le battute (poche) pronunciate in tono monocorde. Tutto suggerisce l’impressione di un’esistenza fredda e controllata, ma il punto è proprio quello. C’è una superficie di auto-repressione nella vita di tutti noi, perchè le norme sociali ci obbligano a controllare e selezionare ciò che mostriamo allo sguardo altrui. Introduci però uno “sguardo non visto” (quello di un voyeur, di uno stalker, di una telecamera nascosta) e l’essenza sepolta degli esseri umani può venire alla luce. In Stranger Eyes persone spiate a loro insaputa compiono gesti di assoluta e gioiosa irrazionalità: ballare, fare l’amore, sfiorare i capelli di qualcuno di spalle.

Lo sguardo per Yeo non è la pulsione terrificante che era per Hitchcock né il potere spersonalizzante che era per Pakula. È anzi il loro contrario: l’unica forza in grado di penetrare lo scudo delle nostre proiezioni e toccarci veramente. Nonostante parta da elementi thriller (il rapimento di una bambina, la realizzazione dei genitori che quello il rapitore sta continuando a spiarli) progressivamente Stranger Eyes si trasforma in qualcosa di molto più simile a un melodramma, un film d’amore insieme freddo e commovente, dove le vite si rubano con gratitudine ed empatia. C’è un dolore tremendo in questo spiarsi a distanza che fa emergere tutte le storture, i non-detti, i malfunzionamenti sociali e le potenzialità sprecate. Stranger Eyes non è meno critico e politico dei suoi predecessori, ma insieme al male sembra voler dire che nelle persone resta una scintilla inestinguibile da cui si può sempre rinascere. Purchè qualcuno la veda.

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