Stranger Eyes, la recensione: nel 2024 si può ancora inventare nuovi sguardi
La recensione di Stranger Eyes, il film diretto da Yeo Siew Hua presentato in concorso al Festival di Venezia
Faremmo notte se dovessimo elencare i grandi film dedicati al voyeurismo. In un medium basato sul guardare è praticamente inevitabile il proliferare di riflessioni sul tema, all’incrocio tra costruzione del personaggio, dello spazio scenico, dell’esperienza registica e spettatoriale. Bastino Hitchcock, Powell e De Palma come stelle polari. Proprio perché si tratta di un tema così abusato (soprattutto in area festival) sorprende che Stranger Eyes riesca ancora oggi a dire qualcosa di fresco a riguardo. E il merito è di un netto cambio di prospettiva. Anzichè ragionare sulle implicazioni del guardare per chi guarda – con annessi giudizi sulla moralità del pubblico, sulle pulsioni morbose dell’inconscio ecc – qui ci si sposta su chi è guardato.
Può essere difficile ambientarsi nel ritmo urbano e familiare del film. La palette è un grigio uniforme molto poco accattivante, le espressioni sono limitate al minimo, le battute (poche) pronunciate in tono monocorde. Tutto suggerisce l’impressione di un’esistenza fredda e controllata, ma il punto è proprio quello. C’è una superficie di auto-repressione nella vita di tutti noi, perchè le norme sociali ci obbligano a controllare e selezionare ciò che mostriamo allo sguardo altrui. Introduci però uno “sguardo non visto” (quello di un voyeur, di uno stalker, di una telecamera nascosta) e l’essenza sepolta degli esseri umani può venire alla luce. In Stranger Eyes persone spiate a loro insaputa compiono gesti di assoluta e gioiosa irrazionalità: ballare, fare l’amore, sfiorare i capelli di qualcuno di spalle.