Strange Way of Life, la recensione

Il primo western di Pedro Almodovar è un gioiello di scrittura. Purtroppo però Strange Way of Life ha dei problemi proprio di produzione

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Strange Way of Life, il cortometraggio diretto da Pedro Almodovar, nelle sale dal 21 settembre e prossimamente su MUBI

Un crimine, uno sceriffo che prima era criminale, un vecchio amico (e sodale) proveniente da quel passato che ritorna, un ricercato che va fatto fuori per una questione personale che poi diventano due questioni personali in conflitto e ovviamente un amore carnale e passionale. In 30 minuti Pedro Almodovar gira un concentrato di quello che è stato il western e lo adatta a se stesso e a quel che gli interessa con incredibile leggerezza. Strange Way of Life, strano a dirsi per Almodovar, funziona molto più quando punta sulla scrittura rispetto a quando punta sulle immagini, è un film di recitazione, di snodi e di non detti e mai un film di frontiera nel senso pieno del western.

L’operazione (che fu presentata a Cannes) è realmente sofisticata, perché la cinefilia di Almodovar è sempre plasmata dal suo stile. Da un certo punto in poi i suoi film sono sempre la rielaborazione non tanto di altri generi (come avviene in Tarantino) ma proprio di altri film, come delle cover jazz di grandi standard che finiscono per essere altro ma sempre sul tema originale. Qui tutto quello che siamo abituati a vedere nel west viene "almodovarizzato" per raccontare qualcosa che un vero film western classico non avrebbe mai potuto raccontare. Ci sono i suoi lenti carrelli orizzontali sugli zoccoli del cavallo che marcia, ci sono le sue inquadrature a due tra i cowboy, c'è una canzone suadente cantata dal vivo e il suo uso dei flashback. Tutto però sembra slavato e tirato via (terribili gli attori nel flashback, noiosissima la fotografia, generiche le scenografie).

Il problema, sembra di capire, è proprio di lavorazione, di produzione e di set, perché invece la scrittura è implacabile. Lo svolgimento tipico del western è contaminato senza nessuno sforzo apparente con il sentimentalismo melodrammatico, in modi che a una prima visione sembrano naturali e quasi classici. Là dove il western prevede una presa di posizione morale da parte del protagonista, una decisione irrevocabile e difficile che certifichi la fatica che richiede mantenere un’etica che possa consentirgli di dirsi pienamente “uomo”, qui c’è invece una presa di posizione sentimentale. Il conflitto non è tra dovere e convenienza ma tra dovere (cioè giustizia) e amore, e tutto mantenendo il fatto che in ballo c’è il potersi dire davvero “uomo”, non persona retta in un mondo senza legge ma persona tempestata da sentimenti in un mondo in cui questi vanno nascosti.

Purtroppo Ethan Hawke è stranamente a disagio con una voce roca e un personaggio che è il più duro dei due, uno sceriffo incattivito dagli anni, che si sente abbandonato, che era il più coinvolto nella relazione passata e che ora è più amareggiato. Solo il dovere gli fornisce una nuova ragione di vita. Pedro Pascal invece, come sempre, è fantastico. Fuorilegge che torna nella vita dello sceriffo come una femme fatale dal suo passato, chiedendogli di trasgredire, di non dare la caccia all’uomo che sta cercando... perché è suo figlio (intreccio che grida Almodovar a ogni svolta). Entrambi hanno avuto matrimoni, figli e relazioni etero ma sono anche l’uno il vero amore dell’altro, vivono una passione impossibile da frenare. E come in Duello al sole non potranno non arrivare alle estreme conseguenze.

Un vero peccato che poi l’esito sia così fiacco. Se queste sono le prove generali per il primo lungometraggio a produzione americana e in inglese di Almodovar c’è poco da stare tranquilli.

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