Storia di un uomo d'azione, la recensione
Prostrato in adorazione del suo protagonista, Storia di un uomo d'azione non riesce mai ad essere l'esaltazione dei valori che vorrebbe
La recensione di Storia di un uomo d'azione, disponibile su Netflix dal 30 novembre
È una storia in teoria d’azione, come dice il titolo che tuttavia fa riferimento a come gli attivisti venivano chiamati, piena di ardimento e tensione in una guerra dalla sproporzione unica, e per questo molto cinematografica, tra alcuni singoli e nemici giganti come le banche o l’America. Ma la prima vittima del film è la ricostruzione storica, proprio la fattura, divisa a metà tra una fotografia vagamente seppiata che viene stesa come un velo su tutte le scene, a prescindere da cosa raccontino, e poi il comparto scenografia e costumi che ricostruisce tutto nuovo di pacca, stirato e appena uscito dalla sartoria. Nulla di serio può essere raccontato con una simile messa in scena, a prescindere dalla scrittura, perché non a mancare è proprio la capacità di immaginare.
L’impegno nel costruire il carattere dei protagonisti è talmente scarso, e c’è così poca capacità di immaginare conflitti e dare vita anche alle dinamiche più semplici che poi nascono scene come quella in cui una ragazza viene convinta ad unirsi agli anarchici perché “Anche tu non sopporti i potenti?”. Cinema che parla nemmeno ai convertiti ma agli esaltati e invece di capire, rileggere, creare paralleli, preferisce celebrare. Il risultato alla fine è l’esatto opposto di quello che si immagina il film vorrebbe, cioè raccontare la profondità dell’indignazione e la fiducia nei valori.