Storia d'Inverno, la recensione
La favola romantica, prima regia di Akiva Goldsman, mette troppa carne al fuoco e dà vita a un racconto troppo sbrigativo per risultare davvero avvincente...
E se fossimo tutti parte di un solo, grande disegno? Questa frase, parte della voice over che apre Racconto d'Inverno, è una tag line fin troppo abusata nel cinema degli ultimi anni; orse per un sempre più diffuso male di vivere, o per il sempiterno desiderio di ricercare un senso alla nostra vita che vada al di là dei semplici confini decretati dalla nascita e dalla morte. Già i fratelli Wachowski e Tom Tykwer hanno provato a trattare il metafisico (almeno nelle intenzioni) argomento del "tutto è collegato" nell'epico Cloud Atlas e, benché durasse quasi tre ore, c'è chi sostiene che la materia fosse di gran lunga troppo ampia e variegata per trovare un soddisfacente spazio di narrazione all'interno del film. Per farla breve: troppa roba in troppo poco tempo.
Ma la storia di Peter non finisce certo qui: dovrà attraversare i decenni, imprigionato in un corpo giovane che nulla ricorda del suo passato, fino ad arrivare ai giorni nostri per compiere il suo personale miracolo. Perché ogni essere umano ha dentro di sé un miracolo da portare a termine, prima di potersi ricongiungere a coloro che ha amato.
Nulla si può imputare al cast, questo va detto: ma non c'è attore che possa salvare una sceneggiatura scritta seguendo per filo e per segno i cliché della fiaba, senza però conservarne anche la leggerezza. Se poi la parte ambientata all'inizio del Novecento è in grado, almeno in parte, di catalizzare l'attenzione emozionale del pubblico sulla vicenda di Peter e dell'amata Beverly, non appena si arriva ai giorni nostri la storia ingrana una marcia troppo alta, non permettendo di affezionarsi ai nuovi personaggi incontrati. Gli eventi si susseguono troppo rapidamente, e la quasi istantanea risoluzione dello scontro finale non aggiunge certo sapore a una minestra già irrimediabilmente insipida e confusa.
In breve, bersaglio mancato. Possiamo conservare negli occhi una serie di belle immagini, complici la fotografia di Caleb Deschanel (padre della attrici Emily e Zooey) e la suggestiva scenografia di Naomi Shohan (American Beauty, Amabili Resti). Ma il risultato finale resta comunque a metà tra le pretese filosofiche desunte dal romanzo originale di Mark Helprin, e la rincorsa affannosa e mai compiuta di un romanticismo fiabesco troppo sbrigativo per non scivolare nella melassa più artificiosa e banale. Storia d'Inverno potrà forse accontentare qualche innamorato senza pretese in cerca di emozioni; vedremo se basterà l'atmosfera di San Valentino a convincere il pubblico.