Stonewall, la recensione

Un racconto intimo fatto da un cineasta che dà il meglio nelle grandi costruzioni e distruzioni, Stonewall è un disastro a fin di bene

Critico e giornalista cinematografico


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Non ha certo la mano ferma del chirurgo Roland Emmerich, non l’ha mai voluta avere e quel che di meglio ha portato al cinema sono stati roboanti disastri naturali, invasioni aliene e distruzioni dall’ambizione sfrenata.

Se c’è davvero qualcosa che può essere identificato come il contributo di questo cineasta al mondo del cinema è la volontà e la capacità di ampliare la prospettiva, immaginare scenari giganteschi in cui gli uomini sono formiche in balia della distruzione al lavoro.
Per questo fa un po’ sorridere quando un cineasta così mette da parte il binocolo e prende il microscopio, quando cioè decide di raccontare storie più piccole ed intime, esattamente la parte peggiore dei suoi film di maggior successo.

Stonewall dovrebbe essere questo, il racconto sentimentale di un momento di svolta nella storia della conquista dei diritti omosessuali in America, il grande confronto tra la comunità gay dell’epoca e la polizia, il primo momento in cui il movimento ha agito, dimostrando cosa si rischiava se le istituzioni continuavano a negare loro i diritti degli altri cittadini.
Nel film di Emmerich tutto è visto attraverso gli occhi di un gay di provincia che arriva in città, interpretato malissimo da Jeremy Irvine. Ripudiato dalla famiglia, maltrattato dagli amici, spera di trovare un mondo più civile a New York ma non sarà così. Entrerà però in contatto con altri come lui, un campionario umano che rappresenta i molti modi diversi in cui i gay cercavano integrazione. Dai ribelli a quelli più inquadrati, da chi cerca di convincere il resto del mondo che i gay devono conformarsi per essere accettati a chi pretende di essere accettato per quello che è.

Neanche a dirlo il film prende vita solo verso la fine, quando si arriva effettivamente agli scontri con la polizia annunciati dal titolo e il movimento prende il posto del dialogo. In quel momento tutto sembra quadrare, ma è un attimo. Il resto sono clichè che non dicono nulla a nessuno, frasi fatte, sentimenti abusati raccontati attraverso le scene più convenzionali, le confessioni al chiaro di luna, omosessuali con lividi che rivendicano dignità. Tutto ciò che già conosciamo e abbiamo visto al cinema in una quantità tale da aver perso significato e non può non irritare la pretesa che davvero la continua ripetizione dei soliti modi di mettere in scena i sentimenti possa dirmi qualcosa di autentico e onesto. È, in poche parole, la via più semplice, ed Emmerich la intraprende sempre, non supportato da un cast né da una scrittura a livello. Un disastro a fin di bene.

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