Stone Turtle, la recensione
Tutto questo film accompagna lo spettatore in un viaggio dal cinema d'autore a quello di genere (e ritorno) per dimostrarne l'identità
La recensione di Stone Turtle, in anteprima alla 75 esima edizione del festival di Locarno
Sono passati 20 minuti e Stone Turtle proprio non è il solito film. Almeno non soltanto. Perché Ming Jin Woo infila in questa storia piena di colpi di scena e di ripartenze anche un filo rosso potentissimo che riguarda i miti. Miti del folklore locale, miti della Marvel e miti che ci costruiamo da soli. Idee molto alte, ispirazioni molto sofisticate ma anche Ricomincio da capodi Harold Ramis.
Arriva così il terzo strato di questo film che sembra averne per tutti: è un film di vendetta nel quale la vendetta è un atto futile. Vendetta alimentata da fantasmi, come fossimo in un film diApichatpong Weerasethakul, vendetta che la protagonista sembra quasi obbligata a portare avanti ma che è sempre meno significativa più informazioni acquisiamo.
Quel che però fa fare a Stone Turtle il salto in avanti è come Ming Jin Woo faccia uno degli usi migliori possibili di un budget palesemente ristrettissimo, sfruttando al massimo quel che il cinema sa fare con pochi elementi. Ad esempio usa un vestito rosso, sempre uguale, per caratterizzare la determinazione della protagonista, mette in scena dei fantasmi senza nessun effetto ma con una recitazione ieratica che rende la loro presenza ancora più incombente, sfrutta una colonna sonora che aiuta lo spettatore a capire il genere o ancora trova in alcuni piani d’ascolto (eccezionale quello finale dell’impiegato che timbra) tutto il senso di una storia che dimostra ancora una volta come la frontiera della mescolanza tra cinema di genere e d’autore, i mix più creativi e il pensiero più divergente oggi sia ancora nel sud est asiatico