Steve Jobs, la recensione

Scritto con rigore, interpretato magistralmente e diretto con scappando dal teatro per trovare il cinema, Steve Jobs smonta e ricostruisce il mito

Critico e giornalista cinematografico


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In una scala da 1 a 10 la difficoltà di portare a termine un progetto come quello di Steve Jobs (film biografico su una figura sia troppo discussa, cioè troppo amata e troppo odiata, sia troppo recente) avrebbe meritato un 9, per questo è incredibile l’arroganza, la forza e la decisione con cui questo bellissimo film è stato realizzato. Non solo Aaron Sorkin ha consegnato uno dei copioni migliori della sua già illustre carriera (più concreto, più asciutto e più pop del già ottimo The social network) ma Danny Boyle ha fatto di una sceneggiatura perfetta per il teatro un film che vive di puro cinema: grande, profondo e denso di immagini.

Quest’ennesimo ritratto di una figura cardinale della rivoluzione informatica (dopo Zuckerberg e Assange) è ancora una volta un disadattato, una persona inadatta alle relazioni umane, che attraverso la tecnologia cerca un posto per sè nel mondo e un rapporto con gli altri. L’assunto non è proprio il massimo, tuttavia il Jobs di Sorkin-Boyle-Fassbender è un personaggio forse non vero ma fantastico.

Steve Jobs demolisce il santino di Steve Jobs e ne fa un villain con cui empatizzare raccontandolo attraverso 3 momenti chiave

Steve Jobs demolisce il santino di Steve Jobs e ne fa un villain con cui empatizzare raccontandolo attraverso 3 momenti chiave, inventandosi che tutto sia accaduto prima di tre importanti presentazioni: nel 1984, quando si giocava la carriera con un prodotto rivoluzionario; nel 1988 quando era stato estromesso da Apple e cercava di rilanciare la sua vita con un nuovo computer concorrente all’azienda che l’aveva cacciato; nel 1999 quando è stato richiamato in Apple e con l’iMac ha iniziato la seconda parte della sua visione. In tutti e tre i momenti Jobs incontra e interagisce con gli stessi personaggi ma in particolare tre di questi, tre che agiscono come i fantasmi di tre Natali diversi. Sono la figura che aveva eletto come figura paterna (John Sculley, amministratore delegato della Apple, prima dalla sua parte, poi contro di lui, poi serenamente rassegnato), la figlia che non aveva voluto riconoscere ma che ha imparato a tenere vicino e Steve Wozniak, amico di sempre, con cui ha condiviso gli esordi e che è sempre stato l’altra faccia della medaglia, il suo legame con le proprie origini.

È quindi un film dolcemente implausibile e onestamente romanzato Steve Jobs, uno in cui lo stesso protagonista si chiede come sia possibile che prima di ogni lancio di un prodotto importante tutti vogliano parlare con lui e dirgli qualcosa di decisivo, ma anche uno scritto troppo bene per non conquistare. Sorkin sembra giocarsi tutti i trucchi da sceneggiatore, tirando fuori dal cappello le carte migliori, senza nemmeno disdegnare la ruffianeria. C’è tuttavia una lotta titanica contro gli eventi e contro se stesso in questo protagonista, un’affascinante tensione verso l’eccellenza per la quale si finisce per concedergli tutto. L’abilità principale di quel copione sta infatti nel costruire non il personaggio-Jobs ma il suo carisma, nel non risparmiare cattiverie e durezza eppure lasciare che il protagonista, con tutta la sua meschinità, conquisti lo spettatore. Movimento del quale non si può non rendere merito a Michael Fassbender, mai modellato sul vero Jobs e forse per questo sempre plausibile e vero.

Con un copione così teatrale era chiaro che molto del film avrebbe poggiato sugli attori e se Micheal Fassbender prende gli applausi, è in realtà Kate Winslet che, dalle retrovie, costruisce le fondamenta del film e porta a casa il risultato con pochissimi gesti e un atteggiamento dall’umana remissività che è fatto della materia di cui si compongono i film: credibilità sentimentale. Eppure l’impressione è che al netto di tutto ciò sia nella regia di Danny Boyle, una volta tanto controllatissima, il segreto del film.
Boyle non considera nemmeno di passare per la teatralità, non ne vuole sentir parlare, alterna lunghe carrellate in steady cam dietro e davanti al palco in stile Birdman (sia per movimenti, che per ritmo, che per rapporto con la colonna sonora), a lunghi dialoghi ognuno in un ambiente significativo. Se non può agire sul montaggio allora lavorerà di set, con le stanze e i luoghi in cui i suoi personaggi si confrontano, Boyle alle volte esprime più di quel che dicono i dialoghi e alla fine, nel complesso, disegna una parabola lunga 10 anni fatta tutta di posti che da soli raccontano una storia di indecisione, declino e ascesa.

Nonostante possa sembrare che stavolta il regista di Trainspotting si sia nascosto, in realtà con poche scelte visive fortissime (ognuno dei tre segmenti è stato filmato su un supporto diverso, 16mm prima, 35mm poi e infine nella perfezione del digitale) riesce ad imprimere ai confronti verbali su cui il film si basa un afflato che lo distanzia anni luce dal teatro filmato. Non c’è attimo in cui Fassbender stia fermo, non c’è azione, movimento o foto nello sfondo che sia casuale (quante volte ricorre, in ognuno dei tre segmenti il volto di Bob Dylan?), non c’è composizione che non racconti, anche senza parole, il lento mutare e scambiarsi dei rapporti di forza tra i personaggi.

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