Steve Jobs, la recensione
Scritto con rigore, interpretato magistralmente e diretto con scappando dal teatro per trovare il cinema, Steve Jobs smonta e ricostruisce il mito
Quest’ennesimo ritratto di una figura cardinale della rivoluzione informatica (dopo Zuckerberg e Assange) è ancora una volta un disadattato, una persona inadatta alle relazioni umane, che attraverso la tecnologia cerca un posto per sè nel mondo e un rapporto con gli altri. L’assunto non è proprio il massimo, tuttavia il Jobs di Sorkin-Boyle-Fassbender è un personaggio forse non vero ma fantastico.
Steve Jobs demolisce il santino di Steve Jobs e ne fa un villain con cui empatizzare raccontandolo attraverso 3 momenti chiaveÈ quindi un film dolcemente implausibile e onestamente romanzato Steve Jobs, uno in cui lo stesso protagonista si chiede come sia possibile che prima di ogni lancio di un prodotto importante tutti vogliano parlare con lui e dirgli qualcosa di decisivo, ma anche uno scritto troppo bene per non conquistare. Sorkin sembra giocarsi tutti i trucchi da sceneggiatore, tirando fuori dal cappello le carte migliori, senza nemmeno disdegnare la ruffianeria. C’è tuttavia una lotta titanica contro gli eventi e contro se stesso in questo protagonista, un’affascinante tensione verso l’eccellenza per la quale si finisce per concedergli tutto. L’abilità principale di quel copione sta infatti nel costruire non il personaggio-Jobs ma il suo carisma, nel non risparmiare cattiverie e durezza eppure lasciare che il protagonista, con tutta la sua meschinità, conquisti lo spettatore. Movimento del quale non si può non rendere merito a Michael Fassbender, mai modellato sul vero Jobs e forse per questo sempre plausibile e vero.
Boyle non considera nemmeno di passare per la teatralità, non ne vuole sentir parlare, alterna lunghe carrellate in steady cam dietro e davanti al palco in stile Birdman (sia per movimenti, che per ritmo, che per rapporto con la colonna sonora), a lunghi dialoghi ognuno in un ambiente significativo. Se non può agire sul montaggio allora lavorerà di set, con le stanze e i luoghi in cui i suoi personaggi si confrontano, Boyle alle volte esprime più di quel che dicono i dialoghi e alla fine, nel complesso, disegna una parabola lunga 10 anni fatta tutta di posti che da soli raccontano una storia di indecisione, declino e ascesa.
Nonostante possa sembrare che stavolta il regista di Trainspotting si sia nascosto, in realtà con poche scelte visive fortissime (ognuno dei tre segmenti è stato filmato su un supporto diverso, 16mm prima, 35mm poi e infine nella perfezione del digitale) riesce ad imprimere ai confronti verbali su cui il film si basa un afflato che lo distanzia anni luce dal teatro filmato. Non c’è attimo in cui Fassbender stia fermo, non c’è azione, movimento o foto nello sfondo che sia casuale (quante volte ricorre, in ognuno dei tre segmenti il volto di Bob Dylan?), non c’è composizione che non racconti, anche senza parole, il lento mutare e scambiarsi dei rapporti di forza tra i personaggi.