Stateless: la recensione
Stateless, miniserie con Yvonne Strahovski e Cate Blanchett, riesce a conciliare bene umanità e denuncia, racconto e analisi
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Stateless è una serie di denuncia, di quelle che incrociano l'incredibile con l'inaccettabile. È basata su più spunti reali – soprattutto uno – che si sovrappongono per raccontare un affresco comune. E tutte queste vicende servono come veicolo per raccontare la feroce routine di un centro di detenzione per immigrati in Australia. Ma ancora, nemmeno questo basta ad esaurire la vicenda, che per affinità richiama senza dubbio contesti drammatici simili sparsi in tutto il mondo. In un modo o nell'altro, per lo spettatore di questa miniserie australiana in sei episodi distribuita ora da Netflix sarà facile adattarne il carico umano ed emotivo a fatti geograficamente più vicini.
Non solo per la presenza di Cate Blanchett in entrambi i progetti, Stateless è al tempo stesso simile e diverso dal Babel di Inarritu. Il tema rimane quello delle innate ingiustizie sociali, intimamente legate al luogo di nascita e quasi impossibili da superare. C'è lo sguardo globale, l'incontro tra culture, la ricerca del contrasto più forte possibile. Dove però il film del messicano divideva con fatalismo i vincitori (Stati Uniti e Giappone) dai vinti (immigrati e Terzo Mondo), Stateless cerca uno sguardo più tagliente e ravvicinato. Lo trova riportando tutte le storie nel polveroso recinto del centro di detenzione, dove ognuno partecipa al dramma in modo diverso e ne vive sulla pelle le conseguenze.
Stateless riesce a conciliare bene umanità e denuncia, racconto e analisi. È una bella miniserie, non folgorante, ma molto solida. Piccolo accenno al ruolo già citato di Cate Blanchett, che partecipa alla serie anche nelle vesti di co-creatrice e produttrice. Il suo, come quello di Dominic West, è un ruolo più che secondario, praticamente relegato al solo primo episodio.