Stardust, la recensione | Roma 15
Ok che è un film su David Bowie senza la musica di David Bowie, ma non c'era bisogno di fare di Stardust un polpettone ripetitivo
È il 1970 e David Bowie vuole sfondare in America, si percepisce come l’anello di congiunzione tra Elvis e Bob Dylan ma non capisce che in quella categoria è pieno di altri musicisti e che, così com’è, è solo uno dei mille figli dei fiori britannici sessualmente ambigui che saturano il mercato. In più tutti gli rinfacciano di non essere Marc Bolan. Il suo problema non sono mai le canzoni, le canzoni proprio non sono nel film e nessuno parla di musica. Il problema è l’immagine, la sua mancata realizzazione è una questione di commercio. Il David Bowie del 1970 non è vendibile. La musica equivale al successo, e il successo passa per un’immagine nuova.
Invece questo biopic sconclusionato, confuso e ossessionato dalla malattia mentale del fratello di David Bowie, usa quella chiave per leggere tutto e non punta mai su questo discorso sull’immagine e il commercio, che pure accenna in più punti. Tiene molto di più ai suoi flashback, alle sue visioni continue (e spesso ripetitive), all’idea di una malattia mentale che scorre in famiglia, alla paura di essere matto e quindi alla schizofrenia della seconda identità. Tutto suona molto molto forzato, poco amalgamato nel racconto e una continua deviazione dalla storia principale, quella del tour fallimentare.
Stardust è infatti uno di quei film in cui i personaggi famosi si chiamano a vicenda con nome e cognome, per spiegare al pubblico chi sono (“Hey guarda, c’è Marc Bolan dei T.Rex!”, “David ricorda sempre che sono il tuo manager Tony!”), uno che vorrebbe raccontare di un periodo cruciale mettendoci dentro suggestioni di quello che verrà, un milione di piccoli indizi, parole, momenti, melodie e nomi che poi saranno fondamentali nella svolta ma, di nuovo, ci fa molto poco.
Quando arriverà Ziggy Stardust non lo farà con l’impressione che sia la summa di una parte di vita ma che sia una gran buona idea. Che era la stessa cosa che pensavamo prima. E di certo l’interpretazione piatta di Johnny Flynn non aiuta.
A scanso di equivoci va precisato che l’assenza totale della musica di Bowie non doveva essere per forza un punto negativo, poteva tranquillamente avere un senso. Ci si poteva lavorare attorno, ma Stardust ci va troppo vicino senza dartele per non farne sentire la mancanza. E soprattutto, a questo punto che bisogno c’era di mettere Johnny Flynn a cantare altre canzoni?