St. Vincent, la recensione
Eppure ha preso parte a questo film indipendente (nel senso più convenzionale) e buonista (in quello meno inventivo).
Peccato quindi che l'esordio nel lungometraggio di Theodore Melfi sia una parabola buonista e scaldacuore, una senza la minima intenzione di raffinare un discorso vecchio come il mondo, ovvero quello del burbero benefico, lo scontroso dal cuore d'oro che solo l'innocenza di un bambino svela per quel che è. Per passare dalla condanna alla celebrazione di Vincent vediamo la più classica delle piccole umanità intorno a lui comprimere a forza realtà e sua parodia nelle stesse scene. C'è una scuola cattolica in cui i bambini sono tutti di altre religioni ma in fondo va bene così, c'è una stripper russa incinta che è pronta a dare amore nonostante non sembri e una causa legale importante che non sembra mai tale. C'è insomma in St. Vincent il "piccolo mondo" di cui il cinema indipendente americano ama innamorarsi e far innamorare ma che rifiuta ogni aderenza alla serietà non tanto dei fatti, quanto dei sentimenti. Perchè alterando così le forze in campo diventa impossibile riconoscere sentimenti onesti e se ne distinguono solo quelli più falsi e pretestuosi, più artificiosi e pompati ad arte.
Menzione tutta a parte per i titoli di coda in cui Bill Murray con un walkman nelle orecchie canta Shelter from the storm di Bob Dylan. Carisma.