St. Vincent, la recensione

Critico e giornalista cinematografico


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Il miracolo di questo film che affronta esplicitamente quel che nel cinema è spesso solo suggerito è che ci sia Bill Murray. L'attore è noto per selezionare i film cui partecipa con il misurino, per essere difficile da raggiungere e non avere un agente (un ostacolo in meno nello scegliere solo i titoli che ha voglia di fare e non quelli che convengono).

Eppure ha preso parte a questo film indipendente (nel senso più convenzionale) e buonista (in quello meno inventivo).

Il suo Vincent è un personaggio che come spesso capita viene presentato con una certa grazia, a mille miglia da quel che sappiamo del Bill Murray moderno e forse più vicino ai personaggi che interpretava da giovane (cinici e bastardi non solo a parole ma sul serio, con i fatti), per poi lentamente rivelare se stesso in una discesa verso il basso del film, da particolare a convenzionale. Lo strano, il deviante, il cattivo ricondotto alla normalità, anche chi sembra diverso in realtà non lo è.

Peccato quindi che l'esordio nel lungometraggio di Theodore Melfi sia una parabola buonista e scaldacuore, una senza la minima intenzione di raffinare un discorso vecchio come il mondo, ovvero quello del burbero benefico, lo scontroso dal cuore d'oro che solo l'innocenza di un bambino svela per quel che è. Per passare dalla condanna alla celebrazione di Vincent vediamo la più classica delle piccole umanità intorno a lui comprimere a forza realtà e sua parodia nelle stesse scene. C'è una scuola cattolica in cui i bambini sono tutti di altre religioni ma in fondo va bene così, c'è una stripper russa incinta che è pronta a dare amore nonostante non sembri e una causa legale importante che non sembra mai tale. C'è insomma in St. Vincent il "piccolo mondo" di cui il cinema indipendente americano ama innamorarsi e far innamorare ma che rifiuta ogni aderenza alla serietà non tanto dei fatti, quanto dei sentimenti. Perchè alterando così le forze in campo diventa impossibile riconoscere sentimenti onesti e se ne distinguono solo quelli più falsi e pretestuosi, più artificiosi e pompati ad arte.

Per questo quel che avviene da metà del film in poi, per non dire nel finale che dà il titolo al film non risulta come l'acmè di un percorso ma è solo l'ennesima pietra retorica ammassata in un cumulo in cima al quale Bill Murray si destreggia ma non può certo far molto e sul quale sembra sia stata imposta Melissa McCarthy in un ruolo serio, tarato per farle mettere in mostra i gesti tipici della brava attrice.

Menzione tutta a parte per i titoli di coda in cui Bill Murray con un walkman nelle orecchie canta Shelter from the storm di Bob Dylan. Carisma.

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