Springsteen on Broadway, la recensione

La nostra recensione di Springsteen on Broadway, spettacolo basato sull’autobiografia uscita nel 2016 Born To Run che Netflix propone a partire dal 16 Dicembre

Critico e giornalista cinematografico


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Poca musica molte parole. Bruce Springsteen prende tutto il suo mondo di riferimento e dimostra che come i grandi narratori anche lui racconta sempre la stessa storia. La propria.

A partire dall’autobiografia uscita nel 2016 Born To Run nasce questo spettacolo, Springsteen on Broadway, che Netflix propone a partire dal 16 Dicembre.

Non è un vero spettacolo nel senso musicale del termine, il boss con chitarra, armonica e ogni tanto pianoforte più che suonare strimpella, ogni tanto parte un brano vero e proprio ma non è come lo ricordiamo, l’armonia è quella ma il cantato è più parlato. Questo è uno spettacolo di storie, palco buio e occhio di bue su di lui nel suo “costume” tipico degli ultimi anni, jeans e camicia neri. Sono racconti e storie che hanno il tono e il sapore simili a quello inciso nel live che precede The River, in cui parla di sé, suo padre e la leva, o quella che ugualmente precede My Father’s House.

Visto da un altro punto di vista si potrebbe dire che con la scusa di raccontare la propria vita racconta il proprio mondo. E diamine se lo racconta bene!

È questa la prima bomba che colpisce lo spettatore, come quest’uomo che racconta storie tramite le canzoni sia anche un grande narratore nel senso più convenzionale del termine. Springsteen on Broadway sfronda il boss della musica e lascia il suo universo mitologico, che poi è la mitologia del rock di provincia americano.

Lo spettacolo appare “scritto” solo se davvero ci si sofferma, in realtà è un racconto molto spontaneo e alcuni passaggi sono di una bellezza allucinante, come la fuga da Freehold, un momento di purezza, sospensione e libertà che sta in tante canzoni ma qui non è più poesia, è prosa. Oppure altri di commovente tenerezza, come l’aneddoto sulla fierezza della madre, matrice delle tante donne fiere dei suoi brani.

La poetica ovviamente è quella di chi scambia volentieri un paio d’ali per avere delle ruote che lo facciano fuggire. Poetica da Americana, Stati Uniti attraversati in auto per un ingaggio (anzi per la speranza di un ingaggio) senza saper nemmeno guidare, perdere tutto e ricominciare con l’eccitazione della pagina bianca, uscire con un ragazza perché si è avuto un grosso anticipo dall’etichetta, essere odiati dai suoi genitori perché si è rocker, materia quasi ridicola in mano a chiunque ma sublime e poetica, sognatrice e romanticissima nelle parole di Springsteen.

Quando il boss si ferma, fa una pausa e poi dice “Dio Santo l’eccitazione di lasciare un luogo” c’è tutto.

Ovviamente è un recitato, cioè è una forma di narrazione che finge spontaneità ma è molto curata. Alla fine non si può dire se Bruce Springsteen on Broadway sia onesto, vero, reale e rappresenti davvero la sua vita (di certo ne è una versione idealizzata) ma si può dire che è scritto alla grande, uno spettacolo decisamente non convenzionale tra quelli che si possono vedere in televisione (grazie Netflix) ma anche uno che si segue tutto d’un fiato catturati dall’abilità da oratore, la partecipazione con cui recita la sua spontaneità e l’afflato epico che dà ad una storia piccola.

Così tanto che ben presto ci si accorge che chiedersi se sia reale o artificioso non ha più senso di chiedersi se la storia di I ponti di Madison County sia accaduta davvero.

Così narrativi, così evocativi e così potenti sono alcuni passaggi di Springsteen on Broadway che in esso è possibile trovare infiniti passaggi capaci di aprire squarci su film che nessuno ha mai realizzato, come il dettaglio che vede il boss lasciare la sua città (che ama e odia, dice lui) per ultimo! Le canzoni ci hanno sempre dato l’immagine da rock del ragazzo che trova una chitarra, ripara un’auto va a prende una ragazza nella notte e fugge, ma nella realtà raccontata qui i suoi genitori e la sorella avevano da tempo lasciato quel luogo, si erano già trasferiti ed era rimasto solo lui. Solo in una città da cui voleva fuggire con il suo sogno e i suoi bar in cui suonare.

Lo spettacolo parte con i primi anni e i primi incontri con gli strumenti, poi un racconto di cosa sia stato suo padre, dopodichè tocca alla madre e ancora lo spirito di fuga, l’odio per quella città che poi diventa odio per qualsiasi cosa sia stanziale, la gavetta nel New Jersey, gli amici musicisti da sempre con lui, tutti quelli che sono partiti per la guerra, i pochi che sono tornati e via dicendo. Tutto con la sua consueta passione per elenchi di infiniti aggettivi e il tono lento che pone enfasi su ogni frase.

La prima cosa che viene da pensare è che pure che fossero tutte falsità, che siano invenzioni letterarie, lo stesso questo gigantesco complemento alla sua discografia è una storia americana da seconda metà del Novecento che potrebbe stare al rock come Sulla Strada alla beat generation: un manifesto. Non avrà mai la popolarità della sua musica, non sarà mai davvero un manifesto perché rimarrà inevitabilmente un prodotto per pochi, probabilmente fan, eppure ne ha quell’afflato. Una storia per chiunque sogni in quella direzione.

Springsteen fa di se stesso il modello del rock, cioè la persona plasmata dai grandi rocker ma soprattutto dai piccoli rocker gli idoli locali che vedeva suonare nei bar e che sono stati i suoi primi miti, persone che nessuno conosce ma che hanno vissuto in quella maniera. Quale maniera? A parole non lo dice mai ma tutto Bruce Springsteen on Broadway lo spiega.

https://www.youtube.com/watch?v=JeAk_sxIj3g

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