Sportin' Life, la recensione | Venezia 77
Diretto da Abel Ferrara e prodotto da Saint Laurent come parte del progetto SELF, Sportin’ Life è in effetti un documentario che ha le sembianze di un diario personale, di un memoir audiovisivo
Alternando le immagini degli accadimenti più importanti e mediatizzati del 2020 – ovvero il coronavirus e il movimento #BlackLivesMatter – a stralci di vita personale, Abel Ferrara vaga a piede libero nella sua personale libreria visiva, nel suo 2020. Ci strattona in modo incontrollato tra riprese fatte col cellulare della sua quarantena romana, video di corsie di ospedale durante la pandemia, città vuote, discorsi di Donald Trump, Papa Francesco, alcune sue esibizioni musicali, scene di Il cattivo tenente, Pasolini, The Addiction, red carpet della Berlinale 2020 di Siberia (il suo ultimo film) e tanti spezzoni di doppie interviste recenti che ha rilasciato assieme al suo attore feticcio e grande amico Willem Dafoe.
La sensazione allora veramente prevalente – che forse, dato il personaggio, è probabilmente voluta - è quella che Ferrara non abbia proprio imposto alcun controllo preventivo sull’organizzazione del progetto. Il punto si fa qui critico, perché questa è proprio la sua filosofia: quella del “fuck off”, del chissenefrega, della libertà e dell’improvvisazione. E bene lo dimostrano quelle interviste, in cui il regista si misura con i critici e con i giornalisti. La scena più bella e rivelatrice di Sportin' Life è allora quella in cui Dafoe legge ad alta voce una recensione del Guardian su Siberia, in cui il critico ammette di essere scappato dalla sala per noia saltando “la scena del pesce parlante”: ed ecco che Ferrara ce la butta lì, subito dopo, come a fargli il dito medio. Ora te la guardi.