Split, la recensione

Parte semplice e diventa sempre più complesso Split, una trama essenziale che si arricchisce fino ad un clamoroso colpo finale

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
C’è uno dei più vecchi ed abusati clichè nella locandina di Split. Il volto del protagonista (James McAvoy) riflesso in una superficie spaccata, segno convenzionale per l’identità multipla, la personalità dissociata, il conflitto interiore. Come una sinfonia ben composta però Split parte semplice, esponendo il suo tema, e poi via via che prosegue rende sempre più complessa l’orchestrazione, aggiunge elementi, complica la storia, amplia le ramificazioni fino al grande concerto del finale, in cui convergono elementi di generi diversi e addirittura confluiscono altri film. Come le personalità del protagonista i livelli di lettura del film si ammassano, come se tante opere differenti fossero in uno stesso semplice film.

È una costruzione inusuale, possibile solo con la tecnica che padroneggia M. Night Shyamalan, capace di comporre ogni inquadratura per suggerire, abile nel lavorare su ogni angolo dello schermo, posizionando oggetti, facendoli muovere o scegliendo in ogni istante il punto migliore per raccontare una data scena per mettere l’accento sulla componente che gli interessa.

Dopo il meraviglioso ritorno alla semplicità e all’essenzialità di The Visit, Split è ancora un film piccolo ed essenziale

Dopo il meraviglioso ritorno alla semplicità e all’essenzialità di The Visit, il film con cui questo regista così a lungo perduto è tornato tra noi, Split è ancora un film piccolo ed essenziale, il secondo frutto della collaborazione con il miglior produttore in circolazione, Jason Blum, l’unico che con la sua politica dei costi contenutissimi e del cinema di paura e di tensione (anche Whiplash è suo) riesce a far dare ai registi il meglio. Non si può dire lo stesso di McAvoy che interpreta i diversi sè con un fare caricaturale, esagerando come se temesse che qualcosa di più sottile non fosse percepito dal pubblico.

C’è una dottoressa che studia il fenomeno delle personalità multiple. I suoi pazienti non solo hanno tantissime personalità ma in loro la convinzione di essere diversi è tale che il corpo segue la mente. Quello che lei vorrebbe provare è che in effetti il suo caso più clamoroso, un ragazzo con 23 personalità differenti che si alternano, riesce a modificare alcuni tratti del suo fisico per adattarsi a persone differenti. Alcune hanno allergie che altre non hanno, alcune piccole differenze cutanee oppure problemi fisici che le altre non presentano. Quello che però noi abbiamo visto è che mentre era una di queste personalità, una ossessionata dalle ragazzine, ha rapito tre ragazze e le tiene prigioniere in un antro.

Chi ha conosciuto (suo malgrado) i peggiori film di Shyamalan sa che una volta un simile spunto si sarebbe facilmente perso in spiegazioni esagerate, teorie assurde e una continua perdita di concentrazione della storia durante la propria narrazione. Split invece è equilibrato e dosato, e se non raggiunge la perfezione di The Visit tra grottesco e pauroso (ne mutua le inquadrature ravvicinate con movimenti sullo sfondo), è comunque un B movie dalla tecnica impressionante, costruzione che finalmente l’assurdo non lo spiattella ma lo cura e rammenda fino a renderlo credibile. Film che finalmente non è mai scemo.

In chiusura poi un colpo di scena inatteso riscrive tutto quel che abbiamo visto, aggiungendo l’ultimo clamoroso livello di lettura che lo inserisce in un universo più ampio. Impossibile parlarne senza fare il più ingiusto e immeritato degli spoiler. Eppure anche senza questa piccola grande trovata, tra il marketing e il divertissement (che scatena scenari e ipotesi selvagge), Split rimane un solidissimo thriller che con la fatica opportuna cerca un posto nel cinema moderno per questo genere sempre meno praticato.

Continua a leggere su BadTaste