Spiderhead, la recensione

Il film personale di Kosinski è pieno di dettagli ed elementi tipici della sua fantascienza che lui sembra il primo a non saper maneggiare

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Spiderhead, il film in uscita su Netflix il 17 giugno

Ci ha messo così tanto tempo ad uscire Top Gun: Maverick, a causa della pandemia, che il suo regista Joseph Kosinski ha fatto in tempo a girare, montare e far uscire su Netflix (quindi senza il minimo bisogno di marketing) un altro film: Spiderhead. Doveva essere un progetto più personale e sicuramente uno più semplice da girare, invece il risultato è non solo più generico ed impersonale ma anche completamente fuori fuoco, la dimostrazione della fatica che Kosinski fa nel trovare una sua strada.

Perché in Spiderhead si trovano decisamente i tratti distintivi di altri suoi film come Oblivion o Tron: Legacy, cioè l’uso espressivo di un design molto marcato ed originale degli scenari e l’architettura degli edifici come rappresentazione del male che incombe sugli eroi, ma lui sembra il primo a non sapere che farsene.

E anche nello spunto c’è una caratteristica tipica dei film di fantascienza di Kosinski, ovvero l’inganno e la doppiezza, il fatto che nel futuro le acque si intorbidiscano e non sia mai facile capire cosa stia succedendo. Se in Tron: Legacy c’era un gioco di identità e in Oblivion più nettamente un finale a sorpresa che ribaltava molto del film, qui la trama stessa ha a che fare con la creazione ad arte dei sentimenti. Un ricercatore che gestisce una prigione privata in cui può disporre dei detenuti li usa per sperimentare dei farmaci il cui dosaggio può controllare a distanza e che, iniettati nei pazienti, alterano l’umore, causano un aumento di tristezza, libidine, rabbia, depressione, ilarità e via dicendo. Nessuno può essere sicuro di cosa provi quindi. 

È un concept che è una manna per gli attori. Saltando tra emozioni estreme devono lavorare non solo sulla malleabilità ma anche sulla resa di un sentimento che è fasullo, forzato eppure percepito come reale. In una scena (l’unica realmente creativa) la reazioni sentimentali estreme sono usate come arma in una colluttazione, usati per fare del male. E quello è il meglio perché Kosinski sembra però molto poco appassionato a tutto questo, soprattutto del lavoro sugli attori che è nullo. Quello che ne esce meglio è Hemsworth, l’unico non interessato da questo gioco di emozioni.

Anche lo script di Reese e Wernick (il duo di Zombieland, Life e Deadpool) è decisamente poco ispirato. Non ha l’umorismo della coppia (per scelta) ma nemmeno il fantastico senso di pericolo che erano riusciti ad infondere nella trama molto classica di Life

Un finale che contraddice il resto del film, spostandolo da thriller di fantascienza a cinema d’azione, nel quale fa capolino una rissa non richiesta da nessuno e abbastanza goffa (nella quale rigorosamente le signore si menano tra di loro e gli uomini tra di loro, perché altrimenti pare brutto), certifica che abbiamo visto un film che non sapeva cosa fare per accontentare il suo pubblico immaginario e ha scelto di far menare i personaggi per risolvere tutto.

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