Spider-Man: Across The Spider-Verse, la recensione

Nel mondo di Spider-Man: Across The Spider-Verse la forma regna e tutto pare nascere dal tratto dando vita a qualcosa di diverso ogni volta

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Spider-Man: Across The Spider-Verse, in sala dal 1° giugno

La trilogia animata di Spider-Man (diventerà tale con il prossimo: Beyond The Spider-Verse) ha il fenomenale pregio di sembrare nata dall’animazione e non dalla sceneggiatura. Ovviamente Spider-Man: Across The Spider-Verse è tutto molto legato ai multiversi che i film live action raccontano e anche questo film ha la consueta cura nella scrittura dei migliori Marvel (anche se siamo nel mondo produttivo Marvel/Sony) ma c’è un tale dominio visivo, una tale spregiudicata eccitazione da disegno, animazione e in certi casi art direction senza compromessi, che tutto il senso stesso del film, ad un livello più profondo, si trova più nei tratti che nelle parole. È un design molto diverso rispetto alla piatta omologazione allo stile Pixar di cui soffre tutta l’animazione in computer grafica, è lo stesso del precedente film ma tirato ancora di più, esasperato per il meglio e soprattutto ancora più in grado di condizionare il racconto.

Miles Morales nella sua dimensione è ormai Spider-Man da un po’ di tempo e si trova a combattere un villain abbastanza ridicolo. Già questo, un uomo trasformato in un essere che crea buchi dimensionali come portali, sembra concepito a partire dalle possibilità di animazione che consente. Il montaggio, la scansione delle scene che lo riguardano e la complessità delle colluttazioni sono difficili da immaginare scritte ma hanno un grandissimo senso di piacere epidermico, di gioia della gag e di delirio di montaggio quando lo si guarda. Proprio questo villain e una visita di Gwen da un’altra dimensione (la sua, in cui tutto è pittorico in un match perfetto con la malinconia della sua vita) innescano una crisi tra dimensioni che porterà Miles Morales a prendere decisioni radicali per salvare non gli altri ma sé stesso e la propria storia.

Questa trilogia di Spider-Man è tutta fondata sull’eterogeneità, cioè sul fatto che esistono tanti Uomini Ragno diversi, ognuno con un tono diverso, un carattere diverso, un mondo diverso e soprattutto un tratto diverso. E lo stile dell’animazione sembra proprio cibarsi di eterogeneità in Spider-Man: Across The Spider-Verse più che mai. Sono questi film che affermano il dominio della forma sulla storia anche se poi a scriverli ci sono due degli sceneggiatori con maggiore personalità disponibili nel mondo dei blockbuster: Phil Lord e Chris Miller.

L’incredibile piacere della loro scrittura (il primo villain da una dimensione cartaceo rinascimentale è questo: piacere della scrittura), la capacità di alternare un umorismo sempre intelligente e frutto di gag visive oltre che verbali, è ancora una volta unito ad una trama intricata quanto serve che sa usare gli intrecci per dare senso ai personaggi, accrescere il loro potenziale emotivo e metterli in crisi su questioni non scontate. Ad esempio il classico conflitto di Spider-man con le forze dell’ordine (che lo ritengono parte dei problemi che lui o lei cercano di risolvere) declinato in varie dimensioni diventa qui l’estensione del conflitto giovanile con l’autorità dei genitori, in un transfer tra rabbia giovane, desiderio punk di autonomia e necessità di agire al di fuori delle normali regole. Qualcosa che ha sempre aleggiato in quelle storie ma nessuno aveva ancora preso di petto.

Eppure la sceneggiatura, per quanto cruciale e come detto molto stratificata, è in Spider-Man: Across The Spider-Verse secondaria, serve a gonfiare un film che tutto quel che di eccezionale ha da dire (e non è poco, come già avveniva per il precedente) lo dice con l’animazione, uno che non solo afferma il dominio della forma ma che sceglie di essere radicale, il più radicale possibile per un cinecomic, immaginando che un film tratto dai fumetti possa essere influenzato dal tratto tanto quanto lo possono essere i fumetti stessi.

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