Una Spia e Mezzo, la recensione
Per la terza volta Kevin Hart fa il contabile spiazzato dall'entrare repentinamente nel mondo del cinema d'azione, Una Spia e Mezzo è davvero un film stanco
Dodici anni dopo in Una Spia e Mezzo, film che Thurber dirige e co-scrive, di quello stile e di quell’umorismo non c’è più traccia. È la terza volta che Kevin Hart propone il personaggio del serio professionista tirato dentro in affari più pericolosi di lui dopo Poliziotto in Prova e Duri si Diventa (che se non altro aveva il solito dilagante Will Ferrell, comico che sembra diventare più giovane e demenziale con l’età). Qui poi, come in Poliziotto in Prova, Kevin Hart è l’unica linea comica accanto ad un duro classico, lì Ice Cube qui Dwayne Johnson, in versione spia della CIA amante di marsupi, unicorni e film con Molly Ringwald. Le gag che sembravano esaurite nel primo film, tirate alla lunga nel secondo sono ora quasi abbandonate a favore di una storia senza né capo né coda.
Vedendo Una Spia e Mezzo viene da chiedersi quanto dell’umorismo del Frat Pack, portato alle estreme conseguenze e adeguato all’evoluzione delle comicità abbia ancora senso. Nella storia il personaggio di Dwayne Johnson è un ex sfigato ciccione del liceo che 25 anni dopo è una bestia (cioè Dwayne Johnson). Per aumentare il contrasto comico gli vengono date diverse caratteristiche effemminate senza un atteggiamento effemminato, per l’appunto la passione per gli unicorni e una lunga serie di stereotipi gay, uniti ad un’affezione esagerata per Kevin Hart (ad un certo punto lo bacerà anche di sfuggita come fosse un errore, poi confesserà di aver dormito per anni con la sua giacca del liceo). Tutto questo affermando chiaramente la sua eterosessualità. In un film del Frat Pack sarebbe stato esilarante, qui lo è molto meno.